Lo ha ribadito anche Jeremy Corbyn ieri nella sua dichiarazione di voto alla camera dei comuni: «L’accordo di Boris Johnson sulla Brexit peggiora i diritti dei lavoratori e degli 1,6 milioni di europei che vivono e lavorano in Gran Bretagna». In questi lunghi anni trascorsi dal referendum il mondo del lavoro è stato già bersagliato dagli effetti della Brexit.

L’elenco delle imprese che hanno lasciato l’Inghilterra è lungo. I primi a scappare sono stati i giapponesi che storicamente avevano fatto dell’isola la testa di ponte in Europa dando lavoro a ben 150mila persone. Lì aveva sede la Sony Europe, spostata in Olanda; stessa scelta per la Panasonic. Se i due colossi dell’elettronica hanno tagliato solo una parte dei circa 2mila posti di lavoro, più pesante l’impatto per l’industria dell’auto con Toyota e Honda che hanno chiuso fabbriche. A Swindon, nello Wiltshire a ovest di Londra, la Honda era arrivata nel 1989 e nel 2019 ha annunciato la chiusura della fabbrica che dà lavoro a 3.500 persone più altri mille dell’indotto. Nonostante le proteste e le marce dei lavoratori, la fabbrica sarà chiusa nel 2021 ma già la produzione era stata bloccata il 9 di dicembre proprio a causa dei problemi legati alle lungaggini delle trattative.

La Toyota invece deve ancora decidere se chiudere nel 2023 la fabbrica di Burnaston nel Derbyshire che dà lavoro a 3mila operai.
Meno pesante l’impatto per il settore bancario e finanziario che però sta pagando fortemente la pandemia tanto da aver fatto diventare gran parte del centro di Londra un deserto per la chiusura degli uffici con forte impatto su ristoranti, commercio e servizi.

La grande preoccupazione della Ces – la confederazione europea dei sindacati di cui fanno ancora parte i sindacati inglesi – era che fossero rispettati i diritti dei lavoratori da parte inglese evitando un dumping salariale e sociale. Pur festeggiando lo scampato pericolo di un no deal, per il segretario generale, l’italiano di provenienza Uil Luca Visentini «non esiste una forma di Brexit che possa migliorare la vita dei lavoratori. Sebbene il presidente von der Leyen sostenga che sono garantite concorrenza leale e condizioni di parità, tutto ciò significa ben poco se il previsto arbitrato a lungo termine fosse il modo principale per affrontare le controversie».

Il riferimento è alle complesse procedure bilaterali che regoleranno nei prossimi questioni assai delicate come il rispetto dei diritti dei lavoratori.

Per la vice segretaria, l’irlandese Esther Lynch, «l’accordo non mette fine alla questione Brexit. Anche con l’accordo ci saranno problemi: l’Unione europea deve aumentare il Fondo di adeguamento Brexit (Brexit adjustment fund) riconoscendo che i lavoratori non debbano sopportarne le conseguenze. I fondi devono essere resi rapidamente disponibili per proteggere i lavoratori, i settori e le industrie già dal primo gennaio. I lavoratori non dovrebbero perdere il posto prima che l’assistenza sia resa disponibile».

La Ces comunque «continuerà a lavorare con i tutti suoi affiliati, tra cui il Tuc inglese britannico e l’Ictu irlandese, per garantire misure per proteggere i lavoratori, i loro posti di lavoro e i loro diritti in futuro».