Quarant’anni di riforme e aperture: dall’addio di Deng Xiaoping alla fase comunista di Mao, passando per la crescita a doppia cifra e il «decennio d’oro» dal 2002 al 2012 che ha fatto della Cina la seconda potenza economica mondiale, per planare sulla promessa: «Faremo tornare il cielo blu».

GLI ENTUSIASTI del dirigismo economico cinese, i fautori e sostenitori di un capitalismo statale perfettamente integrato nella globalizzazione e poco propensi a pensare ai costi sociali di questa crescita, dovrebbero forse riflettere su cosa è diventata oggi la Cina.

Una potenza economica e militare costretta ad ammettere il peso del proprio sviluppo sull’ambiente e sulla salute dei cittadini. Promettere il ritorno a un cielo blu, come ha fatto domenica il premier Li Keqiang durante l’Assemblea nazionale, il momento parlamentare del paese durante il quale i tremila delegati annuiscono ai piani stabiliti dal partito comunista, significa anche ammettere un deficit dovuto allo sviluppo in termini di ambiente, sicurezza alimentare e benessere dei cittadini (secondo il China Daily saranno almeno 800 mila i morti ogni anno da qui al 2020 a causa di tumori dovuti all’inquinamento).

Eppure la Cina è un paese che sa sempre sorprendere: nonostante i problemi ambientali, la dirigenza comunista è indubbiamente in grado di gestire la situazione, nonostante i tanti allarmi circa il collasso della propria economia. Il premier Li Keqiang infatti ha stabilito l’obiettivo della crescita per il 2017: «intorno» al 6,5%, una cifra di poco inferiore a quella dell’anno scorso, 6,7. Si tratta però di uno scarto significativo. È un segnale: data la cangiante situazione internazionale – guerre e ritorno del protezionismo (leggi Trump) – il premier Li Keqiang ha specificato che «una crescita del Pil al 6,5% è possibile anche se il contesto si è fatto più complicato».

La dirigenza comunista indica la strada: crescere meno e meglio. Del resto si tratta di un indirizzo previsto e annunciato già dall’avvio della cosiddetta «nuova normalità»: meno esportazioni, più servizi. Tutto finalizzato a quel progetto – «China 2025» – con il quale il «presidente di tutto» Xi Jinping ha riempito il suo slogan del «sogno cinese»: economia dell’innovazione, robotica, automazione, servizi, regolamentazione finanziaria dell’internet, investimenti e «global governance» per quanto riguarda il mondo, con il mastodontico progetto della nuova via della Seta, «One Belt One Road».

L’ASSEMBLEA NAZIONALE iniziata a Pechino arriva in un anno politicamente complicato: in autunno ci sarà il congresso del partito nel quale è presumibile un cambiamento di parte della dirigenza centrale, unitamente alla possibilità di un prolungamento del regno di Xi. L’evento quindi conferma l’eccezionalismo cinese: un paese colmo di contraddizioni ma che pare sempre in grado di regolare i propri scompensi. Una dirigenza che ha fissato i propri obiettivi basandosi, almeno a parole, su tre concetti chiave: la stabilità, il benessere della popolazione e la rinnovata attenzione all’ambiente, benché solo il primo obiettivo sembri quello cercato in modo più determinato dalla leadership.

Se è vero infatti che i salari medi dei lavoratori cinesi sono ormai paragonabili a quelli di molti paesi occidentali, la Cina rimane un paese profondamente diseguale, nel quale l’urbanizzazione forzata ha portato a gravi disparità tra città e campagne e tra cittadini.

UN PAESE nel quale ancora vige il sistema dell’hukou, che di fatto crea un solco tra cittadini di serie A e di serie B. Nonostante questo, nessun cinese dirà mai di stare peggio di prima. Il problema eventualmente è come discernere tra quanto accade e quanto viene detto dalla dirigenza, sempre sicura dei proclami anche quando mette in guardia dai rischi. L’ex premier Wen Jiabao già anni fa aveva avvisato circa i pericolosi disguidi di una progressione economica fondata su esportazioni e speculazione edilizia.
Lo stesso Xi, appena entrato in carica nel 2012, aveva tuonato contro aziende di stato e settori del paese parassitari, poco utili allo sviluppo di una nazione moderna. Il problema è che le riforme annunciate non sono ancora arrivate e la trasformazione economica del paese rischia di avere tempi lunghi e costi sociali altissimi.

PER QUESTO PECHINO tira il freno, cresce meno, produrrà almeno 11 milioni di posti di lavoro, sperando così di placare il rischio più grave per la dirigenza di Pechino, ovvero la possibilità che tutto possa sfuggire di mano. E sarebbe un delitto se questo dovesse avvenire proprio ora, quando l’«ascesa pacifica» della Cina sembra trovare una sua gratificazione internazionale, dimostrata anche dall’aumento delle spese militare solo del 7%: uno schiaffo a Trump, un aumento che è il minore negli ultimi vent’anni, con il quale Pechino vuole tenere fede al proprio «paternalismo internazionale».