Tra i fattori che rendono più probabili future pandemie, oltre alla sovrappopolazione umana figura anche quella degli animali allevati: nei luoghi con maggiore densità di abitanti i virus hanno più facilità di passare da un ospite all’altro, esattamente come negli allevamenti intensivi, dove i capi oltre a essere a strettissimo contatto spesso hanno difese immunitarie già molto basse e caratteristiche genetiche che li rendono perfetti per fare da veicolo di nuovi virus (come i cani o i gatti di razza, sono animali frutto di una selezione artificiale che li ha estremamente indeboliti). «In Cina come in Pianura Padana gli animali selvatici hanno un rapporto sempre più diretto con noi. In modo molto pericoloso li stiamo avvicinando attraverso gli animali allevati che sono ammassati in condizioni ideali per l’esplosione di un’epidemia – fa notare Claudio Pomo, responsabile sviluppo dell’associazione Essere animali – Nella stessa zona attorno a Wuhan, dove è scoppiato il primo focolaio di Covid-19, il mercato della carne ultimamente è cresciuto moltissimo proprio grazie alla nascita di allevamenti che hanno tolto spazio alla biodiversità».
I contesti a maggior rischio epidemico pertanto non si trovano soltanto in Paesi remoti. Se il commercio illegale di fauna selvatica non è per fortuna particolarmente florido in Italia, la presenza di numerosi allevamenti intensivi ci rende comunque esposti al salto di specie. «Noi conosciamo molto bene i patogeni degli animali allevati ed esistono rigorosi piani di biosicurezza per evitare la diffusione di virus tra di loro – ci dice Umberto Agrimi, direttore del Dipartimento Sicurezza Alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica veterinaria dell’Istituto Superiore di Sanità – Detto questo, non c’è dubbio che negli allevamenti intensivi le condizioni sono perfettamente favorevoli perché un patogeno possa moltiplicarsi. È il caso dei focolai di salmonellosi negli allevamenti di specie avicole o di suini, così come la grave diffusione di Sars-CoV-2 descritta recentemente negli allevamenti di visoni da pelliccia. Questo, al di là delle questioni etiche, è un aspetto molto critico di questi luoghi».

LA CARNE CHE CONSUMIAMO, inoltre, spesso proviene dall’estero. Si pensi ad esempio che un’enorme quantità di bresaola valtellinese viene in realtà prodotta in Amazzonia. In generale, per fare spazio a pascoli e allevamenti, interi habitat vengono quotidianamente deforestati e distrutti in tutto il mondo. Gli animali selvatici che li abitano, così, sono costretti a spostarsi e spesso, anche attraverso le specie allevate, entrano in contatto con l’uomo. Un caso emblematico di questo meccanismo è l’epidemia del virus Nipah scoppiata in Malesia alla fine degli anni ’90. All’epoca per realizzare enormi allevamenti di maiali venne perpetrata una massiccia opera di disboscamento. A quel punto i pipistrelli che prima vivevano nelle foreste si trasferirono sugli alberi da frutto piantati accanto ai recinti e con le loro feci infettarono i suini, che a loro volta passarono il virus agli allevatori. L’epidemia, poi, attraverso i venditori di carne si diffuse a tutta la popolazione.

PER LE LORO CARATTERISTICHE tutti gli allevamenti intensivi – dove gli animali vengono ammassati fino all’inverosimile – costituiscono ambienti ideali per la diffusione di nuovi virus, sia che questi arrivino attraverso specie selvatiche, come accaduto con il virus Nipah, sia che a introdurli sia l’uomo stesso, come nel caso dei visoni contagiati e poi abbattuti nel Cremonese e in Danimarca. Particolarmente a rischio anche in Italia, vista l’incredibile concentrazione di animali presenti, sono gli allevamenti avicoli. «Si parla – specifica Claudio Pomo di Essere animali – di oltre 20 mila polli o altri uccelli in un singolo capannone. Non stupisce che si diffondano epidemie. Uno dei problemi attuali, ad esempio, è l’aviaria: in Francia per contenerla verranno abbattute fino a 700 mila oche allevate per il foie gras e anche in India si sta diffondendo sempre di più. Nemmeno il governo italiano ha escluso che questa malattia possa contagiare l’essere umano. Si pensi che nei nostri allevamenti ci sono 500 milioni di polli e 50 milioni di galline».

FINORA I FOCOLAI DI AVIARIA nel nostro Paese non si sono allargati: alla comparsa del virus gli animali malati sono subito stati abbattuti e questo ha impedito il diffondersi di un’epidemia. Ma in generale, in un contesto in cui si sta già faticosamente fronteggiando un’emergenza sanitaria, mantenere in vita delle perfette culle di persistenza dei virus quali sono gli allevamenti intensivi – e anzi a finanziarle, come si continua a fare a livello europeo – è una scelta sicuramente molto pericolosa.

«Quello che noi diciamo da tempo insieme ad altre organizzazioni ambientaliste – afferma Simona Savini, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace – è che bisogna mettere in discussione la stessa idea di aumentare produzione e consumi all’infinito, soprattutto a livello di carne. Questo perché quella della carne è una tra le industrie alimentari con maggiore impatto ambientale. In Europa sarebbe necessario darsi obiettivi per contenere questa produzione in maniera significativa: perché individualmente si può e si deve diminuire il consumo di prodotti di origine animale, inclusi anche latte e latticini, ma questa scelta deve essere sostenuta dalle istituzioni».