Dipinti dalla mano dell’oblìo: aveva scritto così delle sue opere Milan Kundera, mentre per la critica internazionale il suo è un caso più unico che raro, dal momento che unisce le tecniche antiche con temi assolutamente attuali. Ryan Mendoza, artista americano (nato nel 1971 a New York) è da vent’anni in Europa e vive e lavora tra Berlino e Napoli. A Bologna ha fatto un’esposizione di addio, visto che sta per tornare negli Stati Uniti: una ventina di quadri inediti riuniti sotto la parola Chromophobia, che è anche il titolo di un dipinto che rappresenta il volto di una bambina: nella sua bellezza monocroma, avvolto nel colore rosso-sporco, si fa assai inquietante.

Lo spazio è Abc, aperto da pochi mesi, grazie all’omonima associazione culturale formatasi per rianimare la vita cultural-poetico-visiva e guidata da Lavinia Turra, è situato al primo piano di via Farini, al numero 30. Vi si accede attraverso la galleria Nobile specializzata in arti tra il Cinquecento e l’Ottocento che si affaccia su piazza Santo Stefano essendo quello che fu l’ex studio fotografico di Villani (tra i più famosi in città), collegato con essa e di proprietà dello stesso Maurizio Nobile, appunto, che lo usava come magazzino e ben volentieri l’ha dato in gestione ad Abc per unire arte classica e arte contemporanea. Combinazione stimolante che lo stesso gallerista ha ospitato durante Artefiera: per Esperienze di stile erano state accostate opere contemporanee a mobili, dipinti e/o sculture antichi per farle dialogare.

Luminoso lo spazio, luminosi i dipinti di Mendoza, espressivi nel segno (tutti olio su tela), dove i colori si contaminano per farsi significato: interni borghesi di eleganza kitsch intitolati analogamente Abbandoned house interior in Michigan, i cui dominanti colori verde e marrone sono usati anche insieme per dare corpo ai corpi umani conferendo loro un aspetto malato. Indice di una società ormai malata? Pulsano di vita invece gli esterni di case, sempre nel Michigan, dal tratto semplice in vividi colori abbinati per forti contrasti: arancio vivo con blu scuro, viola chiaro con verde sgargiante e bianco.

A SetUp, la kermesse indipendente nata l’anno scorso, Ryan Mendoza è stato chiamato come guest star: l’enorme e strepitoso Abandoned house with a wig campeggiava sulla parete d’entrata all’autostazione (sede di SetUp), per essere ammirato soltanto all’uscita, scendendo le scale, come flash finale. Un interno borghese con silhouette femminile pluri-livellare: in primo piano una bimba a figura intera nei già noti colori verde-marcio, marron e grigio, poggia come tenuta in braccio sulla capigliatura abbondante bionda in secondo piano e che, a sua volta, fa trasparire un velo grigio che ci appare come i fini capelli grigi di una donna anziana, di cui si intravede anche una parte di abito di antica eleganza. Sono i fantasmi di generazioni e generazioni che oggi abitano le ricchezze del passato abbandonate?

Abbiamo raggiunto Mendoza al telefono a Berlino per parlare della sua produzione e dei suoi progetti.

Guardando la mostra «Chromophobia» si nota un uso particolare del colore…

Il mio percorso come artista era iniziato con il bianco e nero semplice, poi ho provato a aggiungere colori, che sono come persone, ognuno ha le sue caratteristiche e non vogliono stare troppo vicini l’uno all’altro, sono temperamentvoll (pieni di temperamento, lo dice in tedesco, ndr). Non vogliono mescolarsi. Io sono americano, non ho la stessa profondità culturale che ho trovato, ad esempio, in Italia, a Roma. Guardando i muri, si nota che sono fatti con una tecnica a spugna, sulla base bianca è steso un velo di colore da cui traspare la luminosità del bianco. Tutt’altro ho osservato sulle facciate a Napoli, dove il pigmento bianco viene direttamente mescolato col pigmento rosso e si fa meno interessante, rilevandosi un minestrone.

Ha vissuto a Napoli per sette anni, qual è stata la spinta che ha stimolato questo trasferimento?

Mio padre era scrittore e amava spostarsi. Non si fermava mai più di sei/sette mesi in un luogo e io da piccolo ho cambiato oltre venti scuole. Ogni volta era uno shock e un po’ mi è rimasto addosso questo bisogno di muovermi di continuo.

A Roma, dove appunto ero andato per passarci sei mesi, ho incontrato Maurizio Braucci, lo sceneggiatore di Gomorra, che allora ovviamente era un giovane sconosciuto. La sua mente brillante ci ha uniti subito: fu lui a dirmi di andare a Napoli perché lì mi sarei fermato senz’altro. Mi descrisse la città partenopea come il fiume di Eraclito, da un fiume passi in un altro fiume e non ne usciresti mai più. Quella città possiede un’energia particolare che non si trova altrove, forse a Calcutta, è vulcanica, emanata dalle persone e anarchica. Non c’è nessuna regola, al contrario del mondo germanico, per esempio, dove tutto è soggetto a norme ferree. L’importante è riconoscere che sono due sistemi e che entrambi funzionano nel loro essere. Lo standard napoletano è essere stati abili nel resistere a poteri esterni nel corso della storia e saper vivere questo caos sregolato in modo regolare. Con ciò vorrei fare un bell’applauso alla città di Napoli!

In mostra alcuni quadri sono in doppia versione, una monocroma – «Miss America» in grigiochiaro, e un’altra, dove il colore verde-marcio è dato in modo da farla apparire come un negativo fotografico, facendo emergere altre emozioni, sia del soggetto dipinto, sia in chi guarda…

La mia prima mostra si chiamava Cadaver Dog, non nel senso di cani dipinti ma per il riferimento a un tipo di cane che esiste negli Usa e che in primavera esce per cercare cadaveri, fiutandoli nella terra morbida, mentre d’inverno – essendo tutto gelato – non li trova. Ero suggestionato da questa idea del cercare cadaveri. Mi spiego meglio: i grandi pittori del passato, Caravaggio, Raffaello e anche Picasso hanno trovato continenti, io invece sono alla ricerca di isole. Ricordo di essere americano e volevo creare un bello specchio di quella società, come aveva fatto Joyce nel suo Gente di Dublino, dove non ha fatto altro che rispecchiare le persone. Vorrei far emergere dal brutto tutta la sua bellezza.

C’è un’affinità con la letteratura: ciò deriva da un padre scrittore?

A dire il vero volevo fare lo scrittore e, vivendo a Berlino da diversi anni, ho scritto una mia autobiografia che ho fatto leggere a Maurizio Braucci. Lui ne vorrebbe trarre una sceneggiatura. Per farlo, però, il testo deve essere pubblicato. Così sono stato messo in contatto con il miglior agente letterario in Italia, detto «Lo squalo», che di nome fa Roberto Santachiara ed è l’agente di Umberto Eco, Stephen King e dello stesso Saviano. Santachiara ha passato il libro a Elisabetta Sgarbi della Bompiani. È già in fase di traduzione a cura di Simona Vinci e uscirà nel 2014, titolo Everything is mine (Tutto è mio). La considero un’operazione speciale.

Che tipo di scrittura ha adottato?

Mio padre scriveva libri, il mio parla di pittura, ma non c’è un’immagine inserita. Racconta cosa significa dipingere, andare alla ricerca dell’immagine del giorno. È qualcosa che sta nell’aria, basta captarla e realizzarla, ma spesso sono lento e la vedo pubblicata da altri. Vibrano nell’aria per tutti, queste immagini, basta saperle vedere ed esprimere con una tecnica. Tutti lo possono fare, sono lì, galleggiano…

L’artista, con le sue antenne, capta i segnali del tempo, ancor prima che si verifichino nel mondo concreto?

Sicuramente, deve avere la visione, coglierla in modo molto chiaro, come in un sogno. L’obbligo dell’artista è tirarla fuori da quel mondo dell’invisibile e intangibile per condurla nel mondo concreto.

Alcune opere sono state esposte a SetUp, a Bologna…

Sono stato scelto come «principino» della manifestazione, e la comunicazione ha fatto girare molte voci che sono arrivate sino a Berlino: è arrivato un collezionista appositamente per comprare un mio quadro, alla cifra di 57mila euro – un prezzo record per me, mai raggiunto prima!

Il dipinto rappresenta una donna che si tira su i capelli…

Si riaggancia al discorso fatto prima riguardo al sogno, da tirare fuori e portare nel mondo di qua. Un’ispirazione un po’ mistica, anzi, qui sento una mescolanza tra l’alchimista e il mistico che ho appreso da Napoli, città che ha molto da riflettere e far riflettere. Se penso a Palazzo San Felice, dove era passato Mozart, costruito cinquant’anni prima che nascessero gli Stati Uniti! Stando là, mi sono sentito sempre come se vivessi nel barocco. Negli Usa non c’è stato il barocco, il rococò, ma solo il naif e la pop-art.

I quadri esposti alla galleria Abc raffigurano interni borghesi decadenti e esterni di casa semplici e molto colorati che suggeriscono allegria. Rimandano a un pensiero critico sulla società del consumo che si deteriora e la semplicità che rinasce, dando nuova linfa vitale.

Non posso non aver nostalgia di essermi sentito come un white trash, uno sporco bianco, agli inizi. Rispecchia un po’ la mia provenienza, una famiglia di grande cultura da parte di padre e di lavoratori poveri e umili da parte di madre. È qualcosa di fortemente radicato in me e, vivendo in Europa per vent’anni, ne ho sentito la nostalgia, ma anche la felicità di tenerlo lontano.

Infatti, ora c’è il ritorno negli Usa…

Altra coincidenza. Poco prima dell’invito a Bologna mi ha contattato il Mana Contemporary di New York per una residenza artistica di sei mesi, ai fini di una grande esposizione.

«Chromophobia», paura del colore»…

Ha a che fare con il colore in sé, ma per me esprime anche la paura che si prova per le persone diverse da te, nel senso del razzismo imperante nel Michigan, essendo tutti i dipinti riferiti a quell’area, per cui ha anche un valore politico. Pensando a tutto quello che l’uomo bianco ha fatto nel corso della storia…