L’antropologo francese Michel Agier per riassumere quanto constatato da Zygmunt Bauman in Stranieri alle porte (2016) sceglie questa frase: «I muri sono nelle nostre teste». Il muro della «Fortezza Europa» non dev’essere necessariamente solido, in senso materico, ma può anche assomigliare a quel «sistema di protezione galleggiante», fatto di reti, che il governo greco nei primi mesi del 2020 ha disposto nel mare Egeo.

In Bucare il confine (Mondadori Università, pp. 214, euro 16), Gabriele Proglio non ci dice di questi «muri liquidi», ma di quelli terrestri alla frontiera di Ventimiglia in Liguria. Luca Giliberti invece, in Abitare la frontiera (Ombre corte, pp. 237, euro 18), espone la realtà di confine dei villaggi arrampicati sulle Alpi Marittime, al limitare montuoso che separa l’Italia dalla Francia.

TRATTANDOSI DI ZONE di passaggio potremmo pensare a questi luoghi come a uno sfondo temporaneo, invece sono diventati la cornice spaziale fissa delle storie che i due studiosi scelgono di raccontare. È possibile restituire frammenti di memoria individuale e allo stesso tempo la storia collettiva degli spostamenti di esseri umani? È possibile che la pratica dell’ospitalità individuale (spontanea, etica, senza condizioni) riesca ad affrancarsi da certi modelli di pensiero e rompa quel binomio ambiguo che Jacques Derrida chiamava «l’ostipitalità»? È possibile andare al di là dell’idea di neutralità scientifica?

Le interviste di Proglio si susseguono come una raccolta eterogenea di testimonianze sul modello della storia orale, con un sovrappiù di fertile soggettivazione. I dialoghi con le intervistate e gli intervistati mirano a far emergere che la realtà delle parole di chi sceglie di raccontarsi apre alla scoperta di luoghi in cui si concentrano le storie presenti ma anche le eredità del passato, secondo una geografia multitemporale. Quelle di Giliberti compongono una mappatura del «terrero sociale» del territorio della Val Roja : il «doppio ritorno della frontiera» rinvigorisce quella idea fisica e allo stesso tempo anche il rigurgito di vecchie ostilità tra la popolazione della valle Roja o la nascita di nuove animosità tra autoctoni e neorurali.

Proglio descrive le dinamiche inscritte al Passo della Morte, il sentiero che parte da Grimaldi e arriva in Francia. Negli ultimi due secoli questo passo è stato attraversato da coloro che desideravano raggiungere la Francia in fuga dalle guerre, instabilità politiche e persecuzioni religiose. Questi attraversamenti, spiega Proglio, riferiscono una memoria incarnata che si tramanda negli anni: «Esiste una memoria dei corpi, intesa come movimento cinetico sul territorio, che è stata tramandata dai primi anarchici ai partigiani, dai poveri sotto il fascismo agli ebrei, dai dissidenti politici».

ANCHE GILIBERTI insiste su questa memoria degli attraversamenti, facendo riferimento alle reti solidali e guardando nella storia al di là dell’Europa: «un’infrastruttura di transito si genera, composta da reti territoriali in connessione tra di loro – dalla Valle del Loup, alla Valle del Var o a Marsiglia e a Parigi -, che ricorda l’Underground Railroad degli Stati Uniti nel XIX secolo. Una rete sotterranea di case solidali e approdi sicuri – che permetteva agli schiavi neri in fuga dalle piantagioni di risalire il Continente americano verso il nord fino ad approdare in Canada – si ripropone, trasfigurandosi, oggi in Europa, dove persone e reti dei territori attraversati facilitano il dispiegarsi delle rotte migranti, facendo eco alle azioni degli abolizionisti americani di ieri».

IL RIFERIMENTO all’abolizionismo da parte di Giliberti fa da controcanto al termine «apartheid» che Proglio non lesina a utilizzare per i fatti che descrive. Quando le pratiche discriminatorie si formalizzano infatti, la loro acquisizione in quanto «norma» prende la forma dell’abitudine quotidiana. Parlando di Ventimiglia spiega: «Ci sono aree per i bianchi: il centro, le panchine, i supermercati, le spiagge, il lungomare, i bar, i giardini. E ci sono parti della città per i neri: il campo della Croce Rossa e quello informale in via Tenda, quando esisteva; le sponde del fiume Roja, la spiaggia più vicina alla foce del Roja, dove non ci sono stabilimenti balneari, la Caritas. Poi esistono delle zone di contatto: in esse a determinare l’egemonia, in termini relazionali, è la tipologia di comportamento e, in particolare, la questione della mobilità». L’esclusione e il distanziamento sono radicati a tal punto da diventare invisibili agli occhi di coloro i quali osservano lo spazio che li circonda con lo sguardo cieco dell’abitudine, quella per cui la «linea del colore» maschera forme di abuso che sarebbero considerate insopportabili se subite da persone non razzizzate.

La «linea del colore» è anche il parametro che viene utilizzato per selezionare, lungo la D6204 e la SS20 che attraversano la val Roja, i soggetti che vanno controllati in modo più approfondito ai posti di blocco. Giliberti nel suo studio mette in parallelo la militarizzazione della valle, che si materializza nel 2016, al flusso di persone migranti e all’azione delle reti solidali. Pesa anche le conseguenze di questi controlli sistemici e della generalizzata militarizzazione sulla percezione di chi abita la valle, secondo una cronologia che attraversa la realtà della frontiera prima e dopo Schengen – e ora che il «dispositivo di confine» è imposto in maniera capillare su tutto il territorio.

NELLA RICERCA di Giliberti questa frontiera fisica spalleggia le frontiere sociali che abitano la Val Roja. Negli ultimi decenni la valle è stata caratterizzata da processi di neoruralità alternativa, da mobilitazioni sociali tese a guardare il territorio secondo la costruzione di un soggetto collettivo all’insegna della decrescita, della sostenibilità rurale e di valori solidali. Le teorizzazioni di Serge Latouche, André Gorz, Agnès Sinaï si concretizzano nelle scelte quotidiane secondo posizionamenti anticapitalisti, ecologisti e di decolonizzazione del pensiero – per un cambio di paradigma esistenziale che diviene anche culturale e politico.
Nella Val Roja, esperienze di solidarietà, più o meno mediatizzate, prendono forma sul territorio in un tentativo di dialogo fruttifero con le istituzioni locali oppure nella scelta di pratiche di invisibilità tattica. Proglio, nella descrizione delle esperienze di solidarietà del presidio No Borders dei Balzi Rossi descrive una forma di attivismo che si presta a «bucare il confine».

SECONDO LA SEMANTICA della «bolla» le attiviste e gli attivisti tentano di sospendere dinamiche sociali trite e di creare una sorta di parentesi sospesa: «ma è anche, e forse soprattutto, una condizione di sospensione dell’ordine, della quotidianità, uno spazio di extraterritorialità dalle dinamiche nazionali, transnazionali, globali ed europee. La bolla, poi, ha un significato anche intimo. Perché proprio in quello spazio e in quel tempo, che sono condivisi sebbene sospesi, si creano legami talmente forti da resistere nelle memorie di tanti, a distanza di anni».

I legami, la resistenza della memoria personale, la condivisione delle esperienze inscrivono nei metodi di ricerca il ricorso alla sapienza del partire da sé. Proglio e Giliberti riescono a sottrarre le proprie ricerche a una delle antinomie proprie del simbolo dominante, cioè quella tra soggettivo e oggettivo – scardinando l’illusoria presunzione del punto di vista scientifico solo in quanto oggettivo. Il loro posizionamento diventa la misura sistematica dello sguardo da cui osservare il reale che indagano.

Proglio insiste sul valore degli incontri, facendo allusione all’«intersoggettività» come «il luogo liminale e di intersezione tra le soggettività da cui è nata la storia orale di questo confine». Giliberti, allontanandosi da un impianto di ricerca di stampo positivista, ricorre al concetto di «autoetnografia», definendo la sua ricerca «pubblica», «partigiana» e «situata».

La non neutralità dell’operazione storiografica si accompagna alla funzione politica della ricerca, per cui la rivendicazione da parte di entrambi di un respiro situato e di un posizionamento attivista rafforza la scientificità del lavoro di ricerca.