Sostenuta dall’incrollabile fede di 66thand2nd (giunta ormai alla sua ottava pubblicazione dell’autore nel giro di pochi anni), l’inesauribile penna di Alain Mabanckou torna ad aggiungere un tassello dissacrante e divertente alla letteratura africana contemporanea, tradotta nel nostro paese con Memorie di un porcospino (pp.168, euro 16).

IN QUESTO CASO si tratta di un recupero e di una nuova traduzione (a opera di Daniele Petruccioli) di un testo apparso in lingua originale francese già nel 2006, tradotto in italiano da Morellini nel 2009, ma che giustamente l’editore romano recupera, dopo i precedenti Black Bazar (2010), Domani avrò vent’anni (2011), Zitto e muori (2013), Le luci di Pointe-Noire (2014), Pezzi di vetro (2015) e Peperoncino (2016), per completare il profilo di questo prolifico ed ecclettico autore che si muove a proprio agio tra le sue patrie multiple, da Pointe-Noire a Parigi e Los Angeles, con ritorni, come in questo caso, alle origini congolesi. Memorie di un porcospino riprende una leggenda africana secondo la quale ogni uomo ha un doppio animale che lo accompagna lungo il corso della propria esistenza, e talvolta si può trattare anche di «doppi nocivi», più temibili ed esagitati ma più rari da trovarsi.

IL DOPPIO DI KIBANDI è un porcospino appunto, a lui affibbiato all’età di dieci anni quando suo padre lo ha condotto nella foresta e lo ha costretto a ingurgitare una disgustosa bevanda, il mayamvumbi, così sancendo la sua iniziazione e costringendo il povero animale a lasciare il suo habitat naturale, la sua famiglia e la sua comunità per seguirlo fedelmente ovunque e assecondarlo nelle sue azioni.

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DOPO ALCUNI DECENNI e all’insolita età di quarantadue anni che gli fa guadagnare il record di longevità, il porcospino in questione si ritrova improvvisamente libero e inizia a raccontare in prima persona la sua vicenda, constatando che se fosse stato un doppio pacifico senza storia e senza niente di eccezionale, oggi non avrebbe nulla da raccontare. Invece, in veste di doppio nocivo, ha dovuto assecondare tutti i crimini e le efferatezze del suo padrone, uccidendo anche per futili motivi una serie infinita di vicini e conoscenti con i suoi aculei, spesso mangiando i malcapitati e seminando paura e sconforto nel villaggio, dove gli abitanti iniziano a sospettare una radice comune per una serie di disgrazie e morti improvvise, per lo più inspiegabili.

IL TUTTO SCIORINATO in un discorso diretto rivolto al baobab tra le cui radici il porcospino è andato a rifugiarsi dopo la sua liberazione, con un effluvio di parole a ruota libera e un senso della digressione che già caratterizzava il precedente Pezzi di vetro, opera che ha fatto conoscere Mabanckou al grande pubblico e ne ha rivelato le doti affabulatorie e l’inconfondibile verve. Una sovrapposizione di punti di vista e narrazioni riportate permettono al porcospino di criticare il genere umano nelle sue debolezze e contraddizioni e di biasimarlo senza mezzi termini, senza che l’autore si debba addossare piena responsabilità delle sue memorie e confessioni.

Mettendo in bocca a questo sarcastico e pungente narratore divagazioni e osservazioni derivate dalle sue stesse vittime, come il giovane presuntuoso e vanesio letterato di nome Amédée, Mabanckou offre anche una carrellata sui classici della letteratura occidentale scritti dagli umani e importati dall’Europa, da Marquez a Edgar Allan Poe, e pone al contempo dubbi sulla veridicità e attendibilità dei «testi canonici», come quelli scritti da antropologi ed etnologi che tentano di interpretare le società africane, analizzandone ad esempio i riti funebri, con una presunta onniscienza e superiorità del punto di vista.

«QUEL LIBRONE scritto dai primi bianchi, pubblicato in Europa e tradotto in molte lingue e divenuto un riferimento imprescindibile», ma che dal punto di vista di «noialtri» si rivela «un imbroglio… un libro vergognoso, uno scritto umiliante per le società africane… un coacervo di menzogne messo insieme da un gruppo di europei alla ricerca di esotismo, nella speranza che i neri continuino a vestirsi con pelli di leopardo e ad abitare sugli alberi».