Un libro di confine che analizza il luogo dove le «parole del delirio» si trasformano nel delirio della realtà. Di confine, ancora, perché si regge su una solida intelaiatura teorica ricavata dalle riflessioni di Walter Benjamin, Roland Barthes, George Didi-Huberman, Gayatri Chakravorty Spivak e Judith Butler. Di confine, infine, perché l’autrice, Federica Sossi, ha vissuto direttamente le «tante Lampedusa» che segmentano lo spazio liscio europeo. A partire da questi luoghi, nascono riflessioni sull’insensatezza di un’Europa che, per dirla con Aimé Césaire, è indifendibile. Ma soprattutto, Le parole del delirio. Immagini in migrazione, riflessioni sui frantumi (ombre corte, pp. 174, euro 15) è un tesoro preziosissimo per le tante considerazioni che mettono a nudo le contraddizioni legate alle migrazioni contemporanee verso il Vecchio Continente.
Sossi strappa al tempo canonizzato, misura della modernità, frammenti che indicano discontinuità e interruzioni. È la potenza dell’anacronismo di Didi-Huberman; del Jetztzeit, il «tempo-ora», che per Benjamin riscatta la memoria dei «subalterni» e afferma storie, di per sé, sovversive; è l’immemoriale di Warburg, il locus in cui si cerca il significato per un presente in continua ridefinizione.

E DI QUI CHE PARTE la decostruzione di Sossi: una pratica attenta, metodica, profonda e orientata a mostrare come l’assurdità governi il mondo attraverso i confini; una decostruzione che si sviluppa in forma rizomatica, toccando molteplici aspetti: i luoghi milanesi di incontro degli eritrei in arrivo dalla Libia; Fiona, una bambina che, in Stazione Centrale, chiede semplicemente un «Ice Cream»; Idomeni e le notizie dei naufragi fornite dai giornali europei; il corpo di Aylan tra le braccia di un soldato; l’assalto ai treni alla stazione di Keleti; la fotografia che ritrae una colonna di persone, il 4 settembre 2015, occupare una strada, in marcia da Budapest verso la Germania. Sono «immagini che ci assalgono», direbbe Butler, «atti iconici» per Bredekamp. Sono tasselli di un mosaico che regge la discorsività sui confini, l’archivio del futuro che mostra il consenso oltre il (e forse a prescindere dal) politico, là dove è considerato «normale» provare paura per quei corpi in movimento, per quelle storie.

SONO FRAMMENTI di un’architettura che intreccia più narrazioni: i media, i dispositivi di legge europei, la xenofobia nella sfera pubblica e altro ancora. Il disordine dello spazio, su cui si impiantano i processi di sfruttamento, ha un valore intrinseco che questi discorsi, sotto forma di immagini e visualità, cercano di massimizzare. In tal senso, il «delirio» è il sintomo dell’essere «subalterni all’accadere», ovvero, recuperando le riflessioni di Hannah Arendt, di una condizione confermata dal «governo dei sopravvissuti». Questo nonostante le pratiche di resistenza iniziate, forse, con quello striscione: «libertà di movimento, libertà senza confini», Genova, 19 luglio 2001.

LA PRIMA PARTE del volume è una lunga e interessante introduzione. Segue una sezione fotografica datata «settembre 2015», con scatti da Bodrum, Keleti, Monaco, Lesbo, Istanbul, Vukotar e Brezice. Poi l’elenco di parole, sono lemmi che rivelano la sintattica e la semantica, con sguardo foucaultiano, che costruiscono incessantemente le frontiere, ovvero i processi di soggettivazione del linguaggio. «Je suis», «vertici», «paesi terzi sicuri», «Lesbo», «solidarietà», «ragazze d’Europa», solo per citarne alcune. Una, su tutte, colpisce in particolar modo: «naufragi». Quante volte l’abbiamo sentita pronunciare, seguita dalla conta delle vite perse nella traversata, dalle immagini. Immagini che – scrive Sossi – «ci fanno vedere tutto e con cui le attuali forme di potere in grado di riconfigurare come solo naufraghi degli esseri umani, in quanto non legittimati nei loro desideri o necessità di movimento, li consegna a noi, spettatrici e spettatori sulla sponda, nel mentre del loro naufragio».

3 OTTOBRE 2013, 368 morti. «Mai più», si diceva. Ricordate? Si evocava, attraverso l’uso della memoria, altri «mai più»: quello, per esempio, legato alla Shoah. Qui, Sossi, spiega, nel dettaglio, come immagini diverse vengano a sovrapporsi, a intrecciarsi; qual è il ruolo del silenzio e come, attraverso una serie di ritualità – si pensi a Enrico Letta in ginocchio davanti alle bare nell’hangar di Lampedusa, proprio come Willy Brandt nel 1970 dinnanzi al monumento alla resistenza del ghetto di Varsavia – si proceda a costruire, per riflesso al disastro, una violenza «normale».
È un libro da leggere e rileggere, un antidoto alla ritualizzazione dell’apocalisse, un testo che «convoca il potere» e ne mostra le contraddizioni, che chiede, anzi, esige, di reinventare un futuro collettivo, insieme.