Succedono strane cose a Pechino, inaspettate. Le vediamo in un affascinante film d’esordio presentato alle Giornate degli Autori, Underground Fragrance di Pengfei, un ritratto impietoso e allo stesso tempo poetico che anticipava in qualche modo la fase discendente della Borsa e della valuta. Il film mostra due città sovrapposte in un sogno di grandeur accompagnato da una misera realtà.

E’ stato realizzato in Cina qualche documentario sui problemi dell’inurbamento della capitale, ma in questo caso la terza dimensione è data da riferimenti cinematografici che ricordano le grandi crisi epocali, Chaplin e la crisi del ’29, perfino il dopoguerra di Rossellini, contaminazioni che si inseriscono profondamente nel racconto. Le due città sono quella della grande speculazione edilizia che innalza grattacieli che spesso restano disabitati e i sotterranei atomici dei vecchi palazzi abitati dalla gente che arriva dalle lontane province per trovare lavoro. Non è l’underground disperato del post comunismo sovietico che ci aveva per la prima volta spalancato i nuovi scenari dostoyeskiani, veri bassifondi dell’anima, ma il mite accomodamento di gente che appare chiusa in se stessa, indifesa, disposta ad accettare qualunque cosa per la sopravvivenza. Chiusa in un individualismo che si scontra con la cultura collettivistica delle campagne da dove provengono.

Non scorre alcool né droga in quelle topaie allagate dall’acqua piovana, tanto basse da dover camminare genuflessi. Così è costretto a fare anche il giovane Yong Le che per vivere raccoglie i mobili abbandonati dalle vecchie case in demolizione. Un giorno è colpito agli occhi ed è costretto a restare senza vista, bendato. Di lui si occupa senza dire una parola la vicina di stanza Xiao Yun che per vivere esegue una casta lap dance in un locale notturno (scene filmate con evidenti tracce del primo Vecchiali) e di giorno si dà da fare per trovare un lavoro «vero», ad esempi in un’agenzia che cerca di vendere tutti quegli appartamenti ancora in costruzione o in un call center. Il loro esile rapporto fatto di piccoli gesti per aiutare il ragazzo che non può vedere ricorda infine la fioraia e Charlot in chiave capovolta.

Neanche il ragazzo, una volta guarito potrà ritrovare lei. Nessuno dei due, si capisce, ha l’energia per uscire dalla solitudine. Mentre un impresario edile in bancarotta che non vuole svendere il suo terreno precipita sempre più nella povertà, attorniato dal vetro e dal cemento che continua a innalzarsi attorno alla sua antica casa dove sopravvivono echi del passato, riti contadini. Il vecchio e il nuovo, l’oriente e l’occidente si incontrano, così come il vecchio e il nuovo cinema.

A contare le generazioni di cineasti quella di Pengfei dovrebbe essere la «sesta generazione»: mentre la «quinta» voleva vedere la realtà come era piuttosto che come voleva che fosse per il partito comunista e l’interesse personale si poneva in primo piano rispetto a quello collettivo, i nuovi cineasti come Jia Zhangke o Zhang Yuan cresciuti dopo Tienanmen usano un’immagine più «sporca», girano con camera a mano e, come ha fatto Pengfei prendono contatti con le produzioni e i festival stranieri. E infatti per molti di loro esiste in caso contrario la possibilità di avere il film bloccato, sono cineasti «clandestini».

Pengefei, proviene da una famiglia di artisti dell’Opera di Pechino, ha studiato a Parigi all’Institut de l’Image et du Son e dopo sette anni è tornato in Cina dove è stato assistente di Tsai Ming-liang in Face (2009) e The Diary of Young Boy. Produce con Francia, Germania e Torino FilmLab. Il suo è uno dei 21 film che concorreranno al premio De Laurentiis Opera prima con una giuria presieduta da Alfonso Cuaron.