Si cammina lenti, un passo alla volta, gli occhi posati a terra. Quel che resta dell’aeroporto di Donetsk è un’indecifrabile palude di ferro, basta un soffio a sollevare migliaia di letali frammenti.
Il battaglione Somalia c’è entrato questa mattina, per dare il cambio alle unità dello Sparta. Truppe d’assalto comandate dal capitano Mikhail Tolstykh, nome di battaglia «Givi». Spavaldo, corpo sottile, originario – si dice – dell’Abkazia, è il signore incontrastato di questa terra di nessuno, in cui cadaveri e macerie si mescolano in un’unica forma contorta.

A frantumare la resistenza dei corpi speciali ucraini asserragliati nell’aeroporto ci ha pensato lui, concentrando per mesi il fuoco dei suoi artiglieri sulle posizioni nemiche. Dal 9 febbraio di quest’anno un decreto restrittivo a firma di Federica Mogherini sancisce che il comandante Givi è persona non grata in tutto il territorio dell’Unione Europea.

Foto di Ugo Borga
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Dal primo giorno
Sasha e Dimitri combattono nel Somalia dall’inizio del conflitto. «Gli ucraini provano a entrare tutti i giorni» dicono indicando gli ultimi arrivi. Quel che resta di un missile Grad, la coda d’un proiettile di mortaio.
Cresciuti nello stesso quartiere di Donetsk, grigio come la polvere delle miniere che divora i polmoni dei loro padri, insieme si sono arruolati nei ranghi del battaglione separatista.

I corpi dei Cyborg, i soldati ucraini che hanno combattuto la battaglia più atroce, e non ancora conclusa, di questa guerra, giacciono a centinaia, sepolti da tonnellate d’acciaio e cemento. Impossibile recuperarli, in queste condizioni.

Il cessate il fuoco appare quanto mai fragile. La recente nomina di Dmitro Yarosh, leader del Pravy Sektor, l’organizzazione ultranazionalista ucraina che ha sostenuto il peso militare nelle giornate di piazza Maidan, a consigliere militare del Generale Viktor Muzhenko, comandante in capo delle forze armate ucraine, unitamente all’approvazione della nuova legge che equipara il nazionalsocialismo e il comunismo, vietandone i simboli, evidenziano una determinazione tutta nuova della Rada, il parlamento ucraino, riguardo alla questione separatista.

Foto di Ugo Borga
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Sul campo va peggio
Sul terreno va peggio. Posizioni di artiglieria smantellate da ambo le parti in ossequio alle indicazioni di Minsk sono tornate al loro posto, senza il clamore con cui è stato salutato il loro allontanamento. Amnesty International denuncia l’esecuzione di almeno 4 prigionieri ucraini da parte delle forze armate delle repubbliche separatiste.

Secondo Toro, nome di battaglia di un volontario spagnolo arruolato nel battaglione Vostok per «difendere i valori del comunismo e combattere contro il capitalismo occidentale», la tregua – peraltro costantemente violata- è stata utile a entrambe le parti per prepararsi a una nuova offensiva. Il capitano Kor, ex imprenditore ucraino, si dice convinto che il prossimo uragano di fuoco investirà Mariupol.
Alì, afghano naturalizzato russo, per sua stessa ammissione soldato di mestiere, cita la stessa Odessa. Propaganda, certo. Ma non solo. A Karkhov la tensione resta alta. Il rischio di nuovi attentati, annunciati in video e poi compiuti, è tutt’altro che lontano.

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Foto di Ugo Borga

L’apparato militare nelle repubbliche separatiste è impressionante. Un rapporto recentemente diffuso dal Rusi (Royal United Services Institute) indica come certa la presenza, nel Donbass, di circa 10.000 soldati russi dal dicembre del 2014, mentre unità di reparti speciali (Spetnaz) sarebbero operative nella regione già da Luglio.

La disponibilità di mezzi corazzati, artiglieria pesante e munizioni, così come l’organizzazione puntuale dei sei battaglioni che operano nelle repubbliche della Novorossiya e le capacità belliche espresse nel corso dell’assedio della cittadina di Debaltseve, importantissimo snodo ferroviario, rendono molto difficile credere che sia tutta opera di volontari, il cui apporto, secondo lo stesso report, non supererebbe il cinquanta per cento delle unità combattenti tra le fila dei prorussi.

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Foto di Ugo Borga

Ceceni, americani, francesi, italiani combattono nei vari battaglioni. Veterani di altri conflitti, dalla Cecenia alla Bosnia. Mercenari? Molto difficile stabilirlo con certezza. Tutti affermano di essere semplici volontari. La guerra d’Ucraina è una matrioska. Nel suo ventre accoglie decine di guerre fratricide che testimoniano della disintegrazione di una civiltà, quella europea, ostaggio di conflitti mai del tutto sopiti e nuove lancinanti contraddizioni.

L’ospedale Numero 3 di Donetsk, quartiere Kievki, è un ammasso contorto di detriti e lamiere. Si alzano in volo trasportate dal vento, atterrano con un gemito metallico nel piazzale deserto.

La vita continua nei suoi sotterranei. Anya e Alexander, 62 e 65 anni, hanno trovato rifugio in una cantina. Sopravvivono grazie agli aiuti alimentari che arrivano dalla Russia in lunghi convogli. Una candela rischiara le pareti di mattoni anneriti dall’umidità, un tozzo di pane, una tanica d’acqua, un’icona religiosa.

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Scantinati e sotterranei
A scaldarli devono bastare le coperte. Niente acqua e corrente elettrica. L’uscita è parzialmente ostruita da casse di proiettili di mortaio. Un carro armato presidia il piazzale, circondato da sacchi di rena. Sono circa novanta le famiglie di Kievki e Petrovka a vivere ancora nei bui sotterranei dei palazzi disabitati. Marika, 45 anni, condivide una stanza di due metri per due con i tre figli e un gatto. Non ha una casa a cui tornare. La sua è stata sventrata da un grad.

«Abbiamo bisogno del supporto di psicologi per superare tutto questo. La sola idea di uscire da questo rifugio mi è insopportabile». Il 2 marzo 2015 l’alto commissariato per i diritti umani ha diffuso un rapporto secondo il quale i morti sarebbero molti più dei 6.000 dichiarati. Oltre un milione e 250 mila gli sfollati.

Torture, sequestri, bombardamenti deliberati su zone abitate da civili: crimini di guerra sarebbero stati commessi da entrambe le parti. Fonti militari separatiste affermano che i soldati ucraini uccisi in combattimento sono 19.000, pari a circa dieci volte le perdite registrate tra le loro fila. Gli osservatori dell’Osce si muovono sul terreno con grande difficoltà. Impossibile, come in ogni guerra, individuare il confine tra propaganda e verità.

Emergono dalla nebbia come fantasmi. Figure indistinte di soldati che avanzano lente, aggirando circospette i crateri nell’asfalto. Solo a pochi passi ne distingui le fattezze. Barbe lunghe su volti tirati, sporchi. Lo schianto d’una cannonata in partenza non basta a scuoterli. Oltre il muro di sacchi di sabbia un ufficiale s’avvicina.

«Seguite la via principale, vi porterà nel centro della città. Ma non uscite dalla strada e non entrate nelle abitazioni. È tutto minato».

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I resti di Debaltseve
Di Debaltseve non restano che le orbite vuote di palazzi disfatti. Difficile scorgere abitazioni che non siano state danneggiate.

Due carri ucraini schiantati da proiettili di grosso calibro giacciono accanto a un bosco di cui non rimangono che scheletri anneriti dalle fiamme. In piazza Lenin una trentina di persone si mette in coda per ricevere un po’ di cibo, caricare i cellulari al ronzio disturbante d’un generatore a gasolio.

Un pastore russo ortodosso in tenuta militare si aggira tra la gente, seguito da un soldato. Trasporta un’icona appesa al collo, appoggiata sul ventre. I corpi si piegano, baciano il santo. Non una parola. Bastano gli sguardi.

Più che uno spontaneo atto di devozione, il necessario tributo ai nuovi padroni. Dei 30.000 abitanti ne sono rimasti circa 3.000. Un solo medico. Riceve in quel che resta dell’ospedale, la sala d’aspetto dell’ambulatorio abitata da cani randagi. Manca tutto. Medicine, corrente elettrica. Si vive anche in dodici in una stanza, e spesso le stanze non sono che cantine ingombre di brande e coperte che possono trasformarsi in trappole letali. Oltre cinquecento civili vi hanno trovato la morte nel corso dei bombardamenti.

Foto di Ugo Borga
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Nuova vita
Insieme alla guerra per Dasha è iniziata una nuova vita. Operaia in acciaieria, ora coordinatrice logistica di un battaglione del Pravy Sector a Dnipropetrovsk.
«Se non avessi due figli sarei al fronte, con gli altri». Molti degli «altri» sono militari dell’esercito ucraino usciti dai ranghi per confluire in questo battaglione di volontari ultranazionalisti. Corpi speciali, perlopiù. Non si fidano dei generali. Troppo prudenti, poco combattivi, compromessi con il regime russo.

«I veri nemici li abbiamo alle spalle, sono i nostri comandanti», dice Ivan, 33 anni, soldato di mestiere. Molti gli stranieri. Ceceni, polacchi, francesi. Russi, come Juri, 28 anni, ex Fsb ( i servizi segreti). È qui per combattere contro il regime di Putin. «Al fronte non ci sono russi. Ci sono solo sovietici». Per continuare la lotta hanno saccheggiato i musei militari. Mostrano pistole e fucili degli anni 60, le stesse che usano al fronte.

Del cessate il fuoco pensano una cosa soltanto: se ne parlerà quando l’intero territorio ucraino sarà stato riconquistato, Crimea compresa. Allora, forse, sarà necessaria un’altra Maidan per sloggiare gli oligarchi filoamericani che hanno preso il posto di Janukovich. Il concetto è chiaro: né con la Russia né con l’Unione Europea. L’Ucraina deve conoscere una piena indipendenza.
Masha è fuggita a Kiev. Vive con il marito e due figli in un centro che prima della guerra ospitava malati e tossicodipendenti. Ora accoglie gli sfollati delle regioni orientali. Se anche la guerra finisse, a Sloviansk non tornerebbe più. «Ho paura. Dei vicini di casa, di coloro che ritenevo amici e si sono dimostrati il contrario. Siamo di fede protestante. I separatisti hanno chiuso tutte le chiese con l’eccezione di quelle russo ortodosse.

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Foto di Ugo Borga

Hanno sequestrato e ucciso il nostro pastore e i suoi due figli, Alberto e Ruvym Pavenkov. Li hanno gettati in una fossa comune. Ci consideravano spie».

Nazionalismo e ortodossia russa sono legati a doppio filo, due facce della stessa medaglia. Le recenti dichiarazioni del Patriarca di Kiev, Filleret, secondo il quale in Ucraina è in corso una guerra non dichiarata, testimoniano di una profonda frattura anche tra le autorità religiose.

La cicatrice sul collo di Zaur è fresca, i bordi irregolari. È l’unico a non muovere un passo quando i kalash abbaiano sporadiche raffiche. Ceceno arruolato nel Vostok, combatte nel Donbass dall’inizio della guerra.

Nella sua compagnia la maggior parte dei combattenti sono ucraini del Donbass. Quasi tutti ex minatori, nuovi al mestiere delle armi. Ripetono tutti identiche parole.

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Foto di Ugo Borga

Nessuno di loro considera questa guerra una guerra civile. Combattono contro il fascismo neoliberista e finanziario dell’occidente, contro l’aggressione della Nato alla madrepatria Russia. La verità è assai più complessa. Che nel Donbass si fronteggino due fascismi contrapposti, ma in fondo identici, è un dubbio che al fronte nessuno si può permettere.