Quest’anno l’anniversario del massacro di Sabra e Shatila si carica di una tensione e di un significato particolari. I venti di guerra che spirano dalla vicina Siria sono violenti e rischiano di sconvolgere le già precarie condizioni in cui da decenni sono costretti a vivere i profughi palestinesi. Da settimane nelle povere case dei campi si cerca di accumulare cibo, quasi un gesto scaramantico per tenere lontana una guerra che qui invece è sentita alle porte. La Siria infatti è dietro l’angolo e da lì sono arrivati ben 71 mila palestinesi, donne e uomini che scappano da un conflitto di cui non si intravede fine. «Una seconda Nakba», ci ripetono in tanti.
I drammi si ripetono e si sommano. Nei campi i nuovi profughi dormono anche in venti in una stanza e trovare un lavoro è impossibile. Ma non basta. Alle annose limitazioni che il governo libanese impone ai palestinesi che lì vivono da decenni si sommano nuove ingiustizie e prevaricazioni: i palestinesi che arrivano dalla Siria possono entrare solo se in possesso di un contratto di locazione oppure se coniugati con un/una libanese. Condizioni che spesso impediscono un ingresso legale e che li rendono “diversi” dai loro fratelli siriani, ai quali è consentito passare la frontiera senza troppe burocrazie. Per i fortunati che sono riusciti a entrare in Libano i problemi non sono comunque finiti: si vedono infatti rinnovato il permesso di soggiorno di tre mesi in tre mesi, e solo dopo essere usciti e rientrati. Chi sgarra viene punito pesantemente, oltre l’espulsione ad attenderlo c’è una sanzione di 200 euro a persona.

Ancora una volta il paese dei Cedri si vede caricare sulle proprie spalle i costi politici e sociali di conflitti non cercati: come accade da quei lontani giorni del 1948 quando un vero e proprio esodo portò migliaia di palestinesi dalla Galilea occupata dalle armate sioniste qui in Libano. Da allora i libanesi si sentono investiti da una responsabilità troppo grande per loro e chiedono a gran voce alla comunità internazionale di farsi carico, almeno in parte, del problema. Ma da decenni ricevono solo silenzi e promesse mai mantenute. È normale allora che le nuove ondate di profughi provenienti dalla Siria facciano paura. Si teme che il provvisorio diventi ancora una volta normalità, alterando i già precari equilibri fra le tante confessioni che compongono l’universo del Libano.

I primi segnali di quello che potrà accadere già si vedono da tempo: due mesi fa Sidone, la capitale del Sud, fu messa a ferro e fuoco per tre giorni da una battaglia fra l’esercito e i seguaci di uno sceicco sunnita che gridava alla guerra santa in difesa dei ribelli siriani; Tripoli vede riprodursi in diversi quartieri lo stesso scenario siriano e a Beirut il terrore per le autobombe ha fatto introdurre nuove regole di vita. Un esempio: da un mese non si possono acquistare liberamente le schede per i cellulari, serve una complicata registrazione, che per gli stranieri è obbligatoria alla frontiera. Una bestemmia per l’ultraliberismo che da sempre ha caratterizzato questa terra. Inoltre, la crisi siriana a bloccato la vita politica a Beirut e i veti incrociati delle forze politiche pro e contro Assad hanno prodotto il rinvio a data da destinarsi delle elezioni per il rinnovo del Parlamento.

In questo clima si celebra il massacro di Sabra e Shatila, una strage compiuta 31 anni fa per mano delle Falangi libanesi, con la complicità dell’esercito israeliano che aveva il suo quartier generale a poche centinaia di metri dal cuore dei due campi. In quelle 56 ore – fra il 16 e il 18 settembre 1982 – non potevano non aver visto e infatti videro e aiutarono i massacratori. Una verità, questa, sancita anche da una commissione d’inchiesta voluta dalla stessa Knesset, il parlamento di Tel Aviv. La commissione auspicò l’allontanamento del ministro della Difesa di allora, quell’Ariel Sharon che pochi anni dopo sarebbe diventato capo del governo.

Il paradosso di una memoria troppo corta in un Paese che proprio della memoria ha tentato di fare la sua ragione di vita. Risuonano ancora le parole del Presidente della Repubblica italiana di quegli anni, il partigiano Sandro Pertini, che denunciò in un accalorato discorso di fine anno come «uno dei responsabili di quel massacro (vale a dire Ariel Sharon, ndr) potesse girare libero ed essere ricevuto dai potenti della terra». Quanto tempo e quanta acqua sono passati sotto i ponti della storia rispetto all’oggi.

Proprio per non disperdere quella memoria un altro italiano tentò una scommessa che sembrava folle: strappare all’oblio il ricordo di quel massacro e recuperare come luogo della memoria la fossa comune dove in fretta e furia erano stati gettati gran parte dei cadaveri dell’eccidio di Sabra e Shatila. Quel luogo a pochi passi dall’ingresso di Shatila era diventato una discarica e i progetti di sviluppo sfrenato e speculativo prevedevano la costruzione di un incrocio fra due trafficate strade della nuova Beirut. Stefano Charini pubblicò alla fine del secolo scorso un articolo-appello sul suo giornale, il manifesto, e insieme al direttore del più prestigioso quotidiano in lingua araba del Libano, Talal Salman, e a un suo amico palestinese che aveva dedicato la vita ai ragazzi orfani di Tel Azzatar diede vita al Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila. Da allora il manifesto non ha mai fatto mancare il suo sostegno al Comitato e spesso, nel silenzio assordante dei media italiani, ha dato voce a quei palestinesi che la storia sembrava aver condannato ad essere invisibili.

Un Comitato «schierato», «partigiano», «scomodo», come amava sottolineare Chiarini, che non ha mai avuto paura di dichiarare la propria solidarietà verso chi lottava per la giustizia e la libertà a partire dalla resistenza libanese e dalla sua principale forza: Hezbollah. Forte fu l’impegno di Stefano nel raccontare la guerra del 2006, che vide per la prima volta nella storia l’esercito di Israele uscire sconfitto e umiliato. Ma la sua più grande soddisfazione fu nel constatare che la sua scommessa era stata vinta e che nell’area della fossa comune sarebbe stato costruito un mausoleo per ricordare le tante stragi compiute da Israele. Non sorprende quindi come, anni dopo la sua scomparsa, tante sono le sue immagini dentro i campi palestinesi del libano. I palestinesi – ci ripetono di continuo – non dimenticano i propri amici.

La stessa voglia di non dimenticare continua a sorreggere l’esistenza di tanti familiari delle vittime di quel massacro e ogni volta che si torna a Shatila si sente una fitta nel cuore violentissima, che toglie il respiro. Tutti dovrebbero avere l’opportunità di poter vedere almeno una volta i volti in lacrime di quelle donne che dopo oltre trenta anni continuano a chiedere giustizia, o la fierezza di quel padre che prima di morire vorrebbe sapere che sorte è toccata al figlio scomparso in quei tremendi giorni e che per questo da anni gira con un albo dove sono raccolte le foto e i documenti del figlio. Proprio in questa straordinaria umanità sta la forza che da 15 anni porta il Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila a essere in Libano in compagnia di vecchi e nuovi amici.

Ma ricordare il passato ha senso solo se si guarda all’oggi. È questo lo slogan che ci ripetono i rappresentanti di tutte le forze politiche palestinesi che vivono nei campi. I palestinesi sanno bene, perché sperimentato sulla loro pelle, che chiedere giustizia non basta se non si lotta per evitare che ci possano essere nuove ingiustizie e nuovi massacri. Per questo qui tutti oggi parlano di Siria, sono consapevoli dei rischi, hanno paura. Sanno che respingere qualsiasi ipotesi di intervento e di aggressione armata in quel paese è l’unico modo per scongiurare in futuro nuove Sabra e Shatila.