Sul tavolo ho un minidisc. C’è scritto a penna: Bianca Guidetti Serra Torino 8-7-01. Mi parla del partigiano Emanuele Artom che lei incontrò per l’ultima volta il 19 marzo del 1944. «Debbo chiederti un favore visto che stai per tornare in città» e gli chiese dei libri perché come commissario politico voleva «svolgere un po’ di educazione tra questi giovani partigiani: penso a quando si tratterà di ricostruire il paese».

Servivano le armi per far finire la guerra e, con quella, anche la dittatura fascista e l’occupazione tedesca. Ma le armi non bastavano. Lo aveva scritto nel suo diario due mesi prima. «Il fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa: è un effetto dell’apoliticità e quindi dell’immoralità del popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica non sapremo governarci». Allora Bianca va alla galleria Subalpina, trova qualche libro usato, ma non fa in tempo a portarglieli perché due giorni dopo comincia il rastrellamento.

I partigiani sono pochi e male armati. Il 25 marzo valicano un colle a 2500 metri e cercano di riparare in Val Pellice. C’è la nebbia e vedono avanzare dei soldati. «Chi erano? Compagni, nemici? La piccola squadra si rese ben presto conto di essere sotto la minaccia delle armi delle SS italiane». Artom fu portato nel braccio tedesco de “Le Nuove” di Torino. Una settimana dopo «in una cella venne trovato il cadavere martoriato dalle torture». Il partigiano Ming racconta la sepoltura.

«Il suo corpo era spaventosamente livido, piccolo, rigido nel freddo della morte, le mosche eran tante su di lui. Alcuni pani ammuffiti testimoniavano che Emanuele da alcuni giorni non mangiava. Fuori del carcere, per le vie di Torino, verso la periferia, vicino ai tram, vicino a tanta gente. Ehi, guardate, siamo noi, quelli della Resistenza, c’è anche Artom morto, lo portiamo a seppellire. Non ci sentivano, troppo rumore in una città. Il mezzo si fermò in un sentiero di campagna. Fummo fatti scendere. L’SS scelse il posto: ecco, scavate lì, tra gli arbusti e i rovi.

La terra era fredda e dura. Il nazista minacciò: se entro venti minuti il lavoro non era finito uno di noi andava a tenere compagnia all’ebreo. Troppe radici erano cresciute in quel bosco; così, ultimata la buca, il corpo dell’ebreo non ci stava; paura. Ma un compagno sistemò ogni cosa. L’ultimo calcio Artom lo ricevette da noi e l’S.S. ghignò soddisfatto».

Vent’anni dopo la sua morte, Bianca Guidetti Serra decide di ricostruire la vicenda. Una sentenza è stata pronunciata nei confronti di Arturo Dal Dosso, capitano del 1° reggimento SS italiane, momentaneamente irreperibile. Sotto il suo comando Artom è stato frustato con tubi di gomma e con cinghie sul torso nudo; sforacchiato a colpi di baionetta; conficcati spilli sotto le unghie; mozzato un orecchio; strappati i capelli e gettati giù i denti; rotta la vescica; posto a cavallo d’un mulo, che veniva fatto saltare a colpi di bastone, a torso nudo e piagato, con un cappellaccio in testa e una scopa in mano».

Per questo e altri reati Dal Dosso viene condannato a morte e successivamente all’ergastolo poiché la pena capitale è abolita dalla Repubblica italiana. In seguito a due amnistie, la pena sarà commutata in 30 anni e poi in 10. Dopo l’ennesimo atto di clemenza il reato è dichiarato estinto. E siccome costui «fino alla data della condanna percepiva una pensione ferroviaria», Dal Dosso torna in Italia a godersi la pensione. Ma riascoltiamo insieme la registrazione e facciamo un passo indietro. Ripensiamo a Emanuele che chiede a Bianca i libri per «svolgere un po’ di educazione tra i giovani partigiani». Ripensiamoci adesso che celebriamo la Liberazione del 25 aprile.

In questi giorni di quarantena ci dicono ripetutamente che siamo in guerra. Lo dicono spesso a sproposito perché non abbiamo conosciuto dittatura, bombardamenti e occupazione, ma forse il paragone non è completamente fuori luogo.
Stiamo, su tanti fronti, combattendo delle battaglie che ci spingono a considerare ciò che è prioritario e ciò che non lo è. Dunque ricordiamoci di un partigiano che in montagna e con le armi in mano pensando alla Liberazione riteneva che un libro fosse indispensabile per la ricostruzione di un paese.