La storia degli studiosi professionali ha sempre avuto un rapporto difficile con la coscienza storica dei popoli e degli stati. Eppure, il sapere derivato da riflessione epistemologica e da connessa strumentazione metodologica, rimane l’unico riferimento serio di cui disponiamo per ragionare politicamente sulla base delle verità relative frutto di indagini rigorosamente condotte.

Il suddetto rapporto è di per sé difficile, tenuto conto delle diversità d’impianto tra la storiografia professionale e quell’insieme assai composito e differenziato che, con espressione imprecisa, chiamiamo «coscienza storica». Tuttavia, le due sfere hanno interagito positivamente in contesti nei quali la politica si poneva problemi di trasformazione strutturale dell’esistente che comportavano necessità di conoscenza reale. L’attitudine ad analizzare «il presente come storia» veniva considerata componente fondamentale di quella politica.

I gruppi dirigenti del Pci erano naturalmente permeati da questa impostazione culturale, consustanziale, d’altra parte, ad una tradizione socialista di lungo periodo, quella ispirata al «noi conosciamo una sola scienza, la scienza della storia» di marx-engelsiana memoria.

Finché quei gruppi dirigenti hanno mantenuto la prospettiva di un mutamento dello «stato di cose presente» ancorato al complesso delle teorie critiche delle logiche di movimento del capitale, l’autonomia della storiografia professionale rimaneva una garanzia imprescindibile della ponderatezza, della non occasionalità delle scelte politiche Al momento in cui tale prospettiva è stata abbandonata, anzi combattuta con pervicacia, la cosiddetta autonomia del politico si è giocata contro l’autorevolezza dell’autonomia della storiografia professionale.

Quando «l’autonomia del ceto politico, l’essere classe dirigente (o l’esservi cooptato) diventa la palestra in cui si dovrebbe cimentare la cultura di sinistra», il ceto politico cerca una «una legittimazione –auto–», e allora ritorna «il tempo degli “intellettuali dei miei stivali”» (B. Trentin, 1998, I diari).

L’ultimo gruppo dirigente del Pci, formato in grande maggioranza da giovani «berlingueriani», è stato protagonista di una trasformazione «agghiacciante»: centinaia di migliaia di «uomini e donne con alle spalle decenni di impegno appassionato, staccati d’un tratto e senza una parola dalla propria storia – dal lungo cammino che aveva prodotto la costruzione del loro “se stessi” – e fissati di colpo in una nuova identità, rispetto alla quale tutto il prima era nulla» (A. Schiavone, 1999).

I «berlingueriani», per conciliare in qualche modo la nuova identità con la precedente diventata «nulla», hanno dovuto procedere ad aggiornamenti periodici della propria storia politica. Hanno messo in pratica il principio cui si è ispirata la saga della Bourne Identity: «Devo poter dire che quello che era adesso non è più, e che c’è la possibilità che non sia mai stato, dal momento che non ne ho memoria».

Con tale meccanismo un dirigente di rilievo del Pci può asserire tranquillamente, dal momento che non ne ha più memoria, di «non essere mai stato ideologicamente comunista». Ed un berlingueriano può sostenere che «in quegli anni» (inizi anni Ottanta) egli già pensava che il partito fosse «in solitaria navigazione senza bussola» e che in fondo la «tragica fine» avesse risparmiato a Berlinguer lo scacco matto che gli avrebbe inflitto Bettino Craxi. Berlinguer aveva un solo «modo per evitarlo, morire un minuto prima che l’altro muov(esse)» (Fassino, 2003). Dove si vedono i vuoti di memoria diventare il complemento necessario del cinismo di politici professionali che intendono essere vincenti, sul piano della propria personale affermazione, in ogni fase storica.

Se Veltroni e Fassino, come molti altri di quel «gruppo», possono limitarsi ai vuoti di memoria visto che nella «nuova», peraltro storicamente vecchissima, identità si trovano benissimo, chi, come D’Alema, pare rendersi conto del disastro provocato da ciò che continua a chiamare «nuovo inizio» (il manifesto, 27 maggio), si trova di fronte a una ben più difficile coniugazione tra storia e memoria. Esiste ormai una relativamente ampia letteratura di studi seri che documenta, con acribia analitica, il contributo essenziale dato da quel «nuovo inizio» alla costruzione del quadro teorico e pratico del neoliberismo. Senza un’operazione di verità che veda nella storia la base fondamentale di una riflessione critica, la credibilità di un politico risulta del tutto compromessa.