Film poco amato da molti quando apparve, nel 1971, La classe operaia va in paradiso arriva sul palcoscenico per opera di Claudio Longhi e Paolo Di Paolo, regista e dramaturg dello spettacolo prodotto da Ert (in tournée dopo il debutto a Modena e fino al 4 marzo al Teatro della Pergola di Firenze). Nel senso precisissimo che è proprio il film, e non per così dire il suo contenuto, l’oggetto dello spettacolo che si apre su un velocissimo blob di immagini d’epoca mentre scorrono i titoli di coda della pellicola.

E sulla scena ritroviamo anche i due autori del film, Elio Petri e Ugo Pirro, se pur celati (nel testo pubblicato da Sossella) dietro una più neutra connotazione di regista e sceneggiatore. Eccoli infatti che discutono, in una sorta di scenico making of, della loro intenzione di fare un grande film popolare, dalla parte degli operai ma non in modo propagandistico…
Ma anche il film, quel film così connotato, non è poi che un pretesto per guardare indietro, non con rabbia ma con una sorta di incredulità per quell’anticaglia piovuta da un’altra era. Così si esprime lo «spettatore contemporaneo» che si fa carico dello sguardo su un passato che non appartiene più alla memoria ma a qualcosa che assomiglia molto a una polverosa mitologia.

Che storia vecchia, il Novecento! dice. Così sbiadisce il valore di paradigma della parabola dell’operaio Lulù Massa, un nome che è un presagio, stakanovista del cottimo che quando perde un dito per un incidente sul lavoro passa dalla parte della protesta estremista e viene licenziato, per essere poi reintegrato nel suo posto alla catena grazie a quel sindacato con cui si era messo in rotta.
Mentre a tenere insieme questa memoria apocrifa si intrecciano altri materiali, soprattutto di origine letteraria. Da Paolo Volponi a Ottiero Ottieri, dai Porci con le ali di Ravera e Lombardo Radice alla Ragazza Carla di Pagliarani (che però fu pubblicato nel 1960, mi pare, dunque guardava ancora al decennio precedente) fino a Edoardo Sanguineti. E ci sono anche gli intermezzi di un menestrello che scende in mezzo al pubblico con i frammenti di un dimenticato canzoniere di protesta.

L’anacronismo è quasi cercato. Il nastro trasportatore su cui si muovono i pochi oggetti di scena (scatole di cartone da riempire, il simulacro di una macchina utensile…) fa pensare al presente di Amazon piuttosto che alla vecchia fabbrica fordista. Fare entrare lo spettatore in fabbrica era l’unico merito che riconosceva al film Goffredo Fofi, cattivissimo nei confronti del suo revisionismo e della gigioneria del protagonista Volonté. Il teatro opera su un altro piano della realtà, e non è detto che sia male. No, non erano così quegli anni. Non lo erano quegli studenti dall’estremismo parolaio. Ma forse è bene che qualcosa ogni tanto ci ricordi come non eravamo.