È un romanzo? No è un memoir, ma scritto come se fosse un racconto lungo narrato da una voce in prima persona, come fosse parlato, con i ricordi che intersecano i conflitti personali a quelli generali. Con una assunzione di principio importante che potremmo dedurre dal testo: c’è stato un solo ’68, ed è stato quello visionario.

UNA PROVOCAZIONE e una lettura dal di dentro, questo Sessantotto visionario di Renzo Paris (Castelvecchi, pp. 90, 12,50 euro) che lascia senza fiato perché rompe la dinamica diffusa della ritualità celebrativa per restituire genuinità ai giorni vissuti. Senza che venga nascosto come un contrasto irrisolto nella scrittura, divisa tra resoconto diaristico, epifanico e ingenuo degli avvenimenti politici da una parte e dall’altra estrema consapevolezza del diffuso spettacolo che già da allora prendeva consistenza occidentale e si espandeva ovunque. Il capitale andava al controllo totale del pianeta, la merce permeava le ombre.

C’È TUTTO IL «MIRABILE» ’68 in queste pagine, filtrato dal pathos individuale: dalla fuggita goliardia alla morte alla Sapienza nel ’67 di Paolo Rossi provocata dagli scontri con i fascisti, dall’antiautoritarismo a Mao, dal maggio francese, al potere studentesco, dagli Uccelli a Valle Giulia con tanto di «buona razza non mente» (le parole della reazione «a freddo» di Pier Paolo Pasolini), dalla rivoluzione sessuale alla critica della famiglia, dalla scoperta della classe operaia al mondo reale delle baracche; ai migranti marsicani cercati in Germania.

IL PENSIERO DI CHI partecipava, racconta Renzo Paris, non era ancora militante ma carnalmente visionario dentro: «Davanti alla ribellione mi veniva, al solito, da piangere». Si occupavano come rapinatori rivoltosi spazi istituzionali delegati al potere e si attraversava il giorno, confuso tra albe come le notti, stracolmo di un misfatto eretico che creava uno spartiacque in tutti i continenti. La novità del romanzo di memoria Sessantotto visionario sta nel fatto che tutti questi contenuti alla fine non stavano in un «fuori» materiale ma all’interno della nostra stanza, dalla quale stentavamo ad uscire. Consapevoli, ricorda Paris, delle parole dell’amato Viktor Sklovskij: «Sei com’eri e nello stesso tempo sei un altro» – non a caso in esergo al libro.

NELLA NOSTRA STANZA, con l’elenco dei nomi femminili che diventavano specchio della nostra proterva vacuità maschile. Sempre dentro la stanza familiare, perché il tempo e la vita dei nostri avi era stato crudele e la loro vita pavida e in disparte. «Com’era possibile uccidere il padre?», si chiede l’autore, se il padre era già seppellito di suo dall’emarginazione sociale, se era sconfitto e lo sapeva; tutt’al più doveva essere vendicato contro una realtà feroce dalle ingiustizie insuperabili.
Ecco il soccorso della visionarietà da subito nella partecipazione al movimento, con una «doppiezza» che annunciava al mondo la vendetta generazionale; di una generazione, non più di figli di papà, che a milioni arrivava all’istruzione superiore ma già cominciava a rappresentare una vasta disperazione di massa, tra attesa, aspirazioni, esclusione e selezione di classe.
È un fuoco questo memoir, braci che bruciano ancora. E attiva non già solo i ricordi degli atti mancati e il rammarico, ma evoca il presente disadorno dove è arrivato – meglio dire tornato – un terremoto a sconquassare la resistenza dell’ormai lontano movimento reale.

RENZO PARIS TRASFORMA in surrealtà il ricordo del terremoto originario, quello della Marsica del 1915 che spopolò il territorio e ridusse in una miseria ancora più insopportabile le famiglie. Una continuità di chi ha assaporato la tabula rasa e che è sopravvissuto grazie all’invenzione dei succedanei necessari, come gli amici con cui progettare una comune; o come i paradisi artificiali del rimpianto cucucciglio, il decotto di papavero che le madri contadine del Fucino davano ai neonati quando andavano a lavorare, per un sonno momentaneo.

Allora nel ’68 la nostra stanza diventava, doveva e poteva diventare, l’assemblea studentesca e viceversa. Ma mai fino in fondo. Che dello spettacolo si era parte, era fino troppo chiaro. E scrivere è stato un bene rifugio. Ma materiale. La vendetta «concreta» al mondo, un meta-sessantotto di lunga durata.