All’origine del razzismo per Betye Saar c’è soprattutto l’azzurro sporco di una piscina. «Il Brookside Park di Pasadena aveva una piscina. Era aperta per i bianchi tutti i giorni della settimana tranne il martedì, quando i bambini neri o di qualsiasi altra razza potevano usarla: il mercoledì avrebbero cambiato l’acqua».
Una volta cresciuta, abituata fin dall’infanzia a saper fare con le proprie mani tutto (madre cucitrice e nonna che realizzava trapunte per racimolare qualche soldo durante la Depressione), Saar cominciò a collezionare immagini dispregiative della comunità african american. Intensificò quell’attività soprattutto dopo l’assassinio di Martin Luther King. Raccoglieva nei mercati bambolette stereotipo, uncle Tom, Mammy, Pickaninny (i ragazzini «negretti»). E poi attraverso un assemblaggio beffardo e ironico, cominciò a proclamare la loro «liberazione» da quella schiavitù dell’immaginario. Nacque così una delle sue opere più conosciute, The liberation of Aunt Jemina (1972) dove la zia – epiteto che sottolinea un destino di servitù – si lancia verso una nuova vita brandendo da un lato la scopa e, dall’altro, un fucile. Avanza irridente su uno sfondo di figure pubblicitarie incentrate sulla sua stessa icona (è un logo per pancake ancora oggi).

Le opere dell’artista Betye Saar, nata a Los Angeles novant’anni fa (1926), sono esposte per la prima volta in Italia, presso la Fondazione Prada di Milano nella mostra antologica Uneasy Dancer. Curata da Elvira Dyangani Ose, riunisce più di ottanta opere tra installazioni, assemblage, collage e lavori scultorei, realizzati tra il 1966 e il 2016.

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[object Object],, 1972

La «danzatrice incerta» del titolo è naturalmente lei, sorta di sciamana che colleziona memorabilia, sbircia tra le pieghe di credenze e religioni del mondo, apre valigie dimenticate da parenti e sconosciuti per creare le sue sculture sorprendenti, in cui la memoria storica confluisce in quella privata, restituendo un’identità a chi sarebbe rimasto nell’ombra, anonimo.
Ogni oggetto condensa in sé un saggio di antropologia e, insieme, abita una Wunderkammer, un gabinetto delle curiosità puntato sulla blackness. È una camera delle meraviglie attiva, dato che sollecita il potere della consapevolezza. I collage di cianfrusaglie – allestiti come fossero in un museo etnografico – sprigionano una energia inusuale, ricollegano il visitatore con un patrimonio collettivo di immagini, sensazioni, album sentimentali. Scorre la controstoria dell’identità della donna (in particolare nera), ma anche la galleria tipologica della schiavitù e il ritratto del razzismo americano. È in atto un processo cognitivo alternativo che usa l’umorismo per allertare la coscienza. Attraverso i meccanismi del comico, come diceva Bergsson, ci si risveglia dall’anestesia del cuore.

D’altronde, Betye Saar è considerata una pioniera del Black Arts Movement e anche una veterana del pensiero femminista afroamericano. Lei, in realtà, sostiene di aver fatto solo la sua arte e che altri «hanno deciso di trasformarla in una militante». E guai a definire i suoi lavori femministi: l’arte va per la sua strada. «Per me il femminismo è una sorta di umanesimo. Il fatto di accettarsi e sapere che andiamo bene così come siamo…L’obiettivo è essere fedele a me stessa».
Eppure, Saar in quasi mezzo secolo di produzione creativa ha azzerato il linguaggio corrente e riformulato un immaginario a partire da sé e dalla sua comunità.
Il suo archivio di rappresentazioni orrifiche (dai linciaggi ai cliché razzisti) messo in sequenza e assemblato in forme inedite ha spostato l’attenzione, trasfigurato e disperso gli stereotipi, smascherato il dispositivo del razzismo iconografico.

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Tutto, nella sua estetica, gravita intorno all’esistenza quotidiana delle donne nere, spesso con tocchi esoterici, poiché spiritualità e magia hanno un peso non indifferente nella vita di Saar. Anche quando sceglie un oggetto nei mercatini delle pulci (è stata la prima cosa che a voluto fare una volta arrivata a Milano) deve «sentire» la sua anima.
Fin da piccola l’artista disegnava, ma soprattutto faceva «cose», manipolava la realtà in finzione. Da grande, saranno gli oggetti vecchi e le fotografie ad appassionarla, «ogni mia opera nasce sempre da una combinazione di quei materiali», dice.

L’ispirazione per quel bricolage viene da lontano. «Mia nonna viveva a Watts (uno dei distretti di Los Angeles fra i più poveri, abitato dalla comunità nera e teatro di scontri violenti nel 1965, ndr) e quando ero bambina andavo a trovarla. Vedevo Simon Rodia che costruiva le Torri di Watts, ero affascinata dalla loro struttura. Una volta adulta, sono andata a studiarle: ero catturata dai materiali e da quella meravigliosa architettura. L’uso degli scarti riciclati di Rodia, cose come piatti rotti, mi hanno guidata verso la ricerca dell’objet trouvé». E l’altro nume tutelare è, dichiaratamente, Corneille con le sue scatole-mondo.

Attraversando le sale della Fondazione Prada, si viaggia migrando con le popolazioni africane alla volta dell’America, si sogna quell’Alpha e Omega dell’esistenza umana raffigurata con barche sospese nel blu e con palle di vetro per predire il futuro (che rimandano anche alle catene della schiavitù), si soffre per la segregazione fra le gabbie, ci si commuove di fronte ai ricordi della zia Hattie, un «memorial» intimo contenuto all’interno di una polverosa valigia. E si strofinano i panni dei bianchi insieme all’archetipo delle Mammy.

Ma l’America di oggi, come la giudica Saar? «Il presidente Obama è una persona intelligente, capace di prendersi cura del prossimo: ha cercato di aiutare chi non ce la faceva da solo. Il suo fallimento è dovuto alla miopia di chi non ha voluto accettare la sua visione. Gli Stati Uniti sono ancora adesso il miglior paese, nel bene e nel male. Il razzismo è un problema che riguarda tutti e stiamo ancora cercando di risolverlo».