Prima di trovarsi davanti alle opere di Hans Memling, vengono in mente volti tutti con la stessa espressione: bocca chiusa, occhi sereni, fronte ampia. Una tipologia umana che sembra rispondere a una scelta più ideologica che estetica: c’è un cosmo i cui valori non sono in discussione, dove limpidezza e chiarori bagnano paesaggi e uomini in misura paritaria.

Il pittore, che è documentato a Bruges dal 1465, in gioventù dovette confrontarsi con i primi giganti delle Fiandre: ma tanto i traguardi di Jan van Eyck, con la sua poesia del particolare, quanto i modi di Rogier van der Weyden, maestro del monumentale e della pietà, dovettero risultargli estranei. La via percorsa da Memling è quella di chi scopre presto una formula che garantisce un successo e a quella si attiene per il resto dei suoi giorni. Una fortuna che si consolida con il genere per antonomasia della pittura fiamminga, il ritratto. Se a Memling si concede la possibilità del riscatto, è questo il tassello della sua produzione che può non lasciare indifferenti. Qui si palesa il suo genio tutto fotografico, attento a psicologie fragili, capace di individuare la forma di un occhio o di un naso, non più ridotto in termini astratti, come capita in santi e madonne. Ma ancora: quanta distanza rispetto al van Eyck pittore di luce, che sa riassumere il senso di un’esistenza in una smorfia o in un sorriso (è la linea che porta a Petrus Christus e Antonello da Messina). Eppure, la soluzione memlinghiana, giocata sul registro di una riconoscibilità immediata, doveva mandare in sollucchero gli esponenti della borghesia commerciale delle varie nazioni italiane che a fine Quattrocento erano di stanza nelle Fiandre. Perciò questa pittura, pensata per una classe sociale che non ha tempo e voglia di perdersi in intellettualismi, non ha mai cessato di piacere: e nelle stagioni in cui la borghesia, ora internazionale, guadagnava potere d’acquisto in ambito artistico – nel pieno Ottocento – le quotazioni del pittore non a caso salivano. Ma almeno dall’inizio del Novecento, la critica ha iniziato a ridimensionare la sua figura e forse Panofsky ha ragione quando paragona il pittore a Felix Mendelssohn-Bartholdy, che «a volte incanta, non urta mai e non travolge mai». Semmai è ingeneroso nei confronti del compositore.

Da spettatori moderni, abituati come siamo a ben altri tassi di variazione, è di per sé rischiosa la scelta di dedicare al pittore una monografica. Ma nonostante queste e altre criticità, a mettere a bilancio la mostra su Memling Rinascimento fiammingo (a cura di Till-Holger Borchert, fino al 18 gennaio, catalogo Skira, pp. 247, euro 38,00), ci sentiamo in diritto di festeggiare il passo avanti, e non di deplorare i due indietro. Intanto perché la notizia c’è, e il fatto è serio: l’infausta saga sulla pittura veneziana che ha avuto spazio negli ultimi anni alle Scuderie del Quirinale, da Antonello da Messina (2008) a Tiziano (2013), ha esaurito il suo corso. Ora sembra maturo il momento di ripensare una sede espositiva che ha buone potenzialità di cambiare rotta.

In primo luogo, la mostra ha pagato a caro prezzo il rifiuto di un prestito eccellente, ritirato all’ultimo momento, e sul quale era stata strutturata la sezione iniziale. Si tratta del Trittico del Giudizio Universale, opera con una storia che è già romanzo: commissionato a Memling prima del 1471, a Bruges, da Angelo Tani, che è direttore del Banco mediceo nella città fiamminga, è previsto per una cappella della Badia fiesolana, ma durante il trasporto, nel 1473, il vascello di Tommaso Portinari viene sequestrato da una nave anseatica e il bottino spartito: il trittico è donato ai marinai di Danzica e il borgomastro della cittadina subito lo colloca nella Basilica mariana.

L’opera, ora nel Museo Nazionale, non è mai stata esposta in Italia e si voleva tentare l’impresa, ma i conservatori polacchi l’hanno negata. Avrebbe avuto un senso ammirare questo capolavoro giovanile e forse insuperato del pittore: dove Dio Padre e San Michele si dividono il compito di ripartire dannati e salvati, dove la porta del paradiso è una sorta di torrione gotico fiorito, affollato di rilievi e angeli musicanti, e gli inferi una sarabanda di corpi nudi gettati qua e là, nel buio e nelle fiamme.

Se per un breve tratto Memling si è lasciato sedurre da Van der Weyden, lo si vede nel Trittico di Jan Cabre, rimontato in mostra: il pannello centrale è ai Musei Civici di Vicenza, i laterali interni alla Morgan Library di New York, gli esterni al Groeninge di Bruges. Ma non si tratta di un’assimilazione reale: le istruzioni spaziali e cromatiche del maestro che lavora a Bruxelles, che ha una carriera tutta diversa, da tipico pittore di corte, rimangono estremistiche e troppo cólte rispetto alla maniera, dolce e compromissoria, del nostro Hans. Vale la pena ricordare la deriva che può prendere il discorso recente sui fiamminghi, come si capiva alla grande mostra di Lovanio su Rogier Van der Weyden. Master of Passion 1400-1464: un evento piuttosto rumoroso del 2009, basta rivedere il sontuoso catalogo a cura di Lorne Campbell e Jan van der Stock (però con fotografie di particolari dei dipinti molto istruttivi) o ricordare l’allestimento minimalista: come se fosse necessario, al giorno d’oggi, per riavvicinare il pubblico ai primitivi, ricorrere ai coupes de théatre…

È di altra specie la mostra di Roma, e tuttavia si poteva forse esplorare con più convinzione un tema centrale, che pure è trattato: il rapporto di Memling con la pittura italiana, tanto che meriterebbe di essere dipanato in altra occasione espositiva. Soprattutto perché negli studi è divenuto un luogo comune: ogni volta che si propone un confronto fra un ritratto di Antonello o di Leonardo e uno di Memling, l’asino casca e ci si accorge che non c’è alcun dialogo di stile. In altri casi (Bellini, Perugino, Raffaello e Fra Bartolomeo giovani), le idee passano al netto di una rielaborazione quasi snaturante. Fa eccezione, e in mostra lo si capisce bene dal confronto fra due Ecce Homo, solo Domenico Ghirlandaio: a lui va la palma di memlinghiano nostrano, contemperata da un’altra simultanea e nota dipendenza: da Hugo van der Goes.

È trascurato invece il versante veneziano, cruciale per intendere la fortuna italiana del pittore: ce lo dicono Marcantonio Michiel e il dittico diviso fra Monaco e Washington (non in mostra), su cui era stata costruita con intelligenza la prima sala della mostra padovana su Pietro Bembo, che tanto ci era piaciuta due anni fa. Non si tratta della situazione napoletana, che però, a leggere Bartolomeo Facio, è roccaforte di van Eyck e van der Weyden. A ragion veduta, ma in modo troppo sfilacciato, il grosso delle energie della mostra si è concentrato su Firenze. È invece una sorpresa piacevole – a dimostrazione delle giuste intenzioni per cui questa mostra va considerata – trovare opere provenienti da contesti italiani periferici ugualmente egemonizzati dalla pittura fiamminga, come la Sardegna e la Liguria. Getta luce su un pezzo di storia figurativa, come in pochi altri casi, il Trittico di Sant’Andrea commissionato nel 1499 da Andrea della Costa a un pittore di Bruges, per la chiesa di San Lorenzo alla Costa, a Santa Margherita Ligure, dove ancora oggi si trova: prestito azzeccatissimo. Intanto perché il suo anonimo autore non è uno sprovveduto: le sue impaginazioni spaziali, di interni o di paesaggio, sono diligenti; i suoi personaggi, che riprendono timidamente pose trite, sono rianimati da un virtuosismo della materia, che ha nelle stoffe, nei panneggi e nei broccati, i suoi punti di forza (ancora: un linguaggio per mercanti). Con i classici espedienti naturalistici appresi in bottega, da Memling o da uno vicino: una donna si tappa il naso, una testa sbuca da dietro il pilastro della chiesa. Sono opere di rara visibilità, che il grande pubblico impara a conoscere, e – ci viene di suggerire – a un compito del genere, quasi costituzionale, sono chiamate le Scuderie. Così come non guasta avere esplorato, seppure con qualche esagerazione, il rapporto originale-copia o l’esistenza di una corrente memlinghiana a Bruges, i cui esponenti – come il ‘Maestro dei Ritratti Baroncelli’ o il ‘Maestro della Leggenda di Sant’Orsola’ – sono ugualmente in contatto con l’Italia.