L’arabesco e il ghirigoro sono le figure ironiche per eccellenza, secondo Schlegel, perché sono de-centrate, deviano e ritornano, sfuggendo sempre alla convergenza e alla simmetria. Nient’affatto esornative, anzi figure sostanziali: si fanno seguire dall’occhio e invitano alla concentrazione. Chissà se ci pensava Fausto Melotti quando nel 1955 realizzava Arabesque, una collezione di ghirigori a tempera e bruciatura su carta: schizzi di nero e terra a cespugli e gruppi sul predominante fondo ocra della superficie di supporto. Astrattismo, certo, ma forse c’è qualcosa di più: la realtà non esiste che attraverso i simboli che la catturano, usava dire. Una specie di (inconsapevole) manifesto programmatico, allora, per un artista senza troppe fissazioni teoriche, ma convinto che la forma è tutto: l’arte è uno stato mentale angelico, geometrico, che si rivolge all’intelletto anziché ai sensi, dichiarò. Dare forma alla vita anziché abbandonarvisi è sempre stato il suo obiettivo, lungo una carriera con molte sperimentazioni sui materiali, tra pittura, scultura e musica, ma senza grandi svolte programmatiche.
L’opera è ora in mostra alla Estorick Collection di Londra, che, in collaborazione con la Fondazione Fausto Melotti e la galleria Hauser & Wirth, ha deciso di presentare l’artista italiano al pubblico inglese (e possibilmente internazionale), corentemente con l’obiettivo del museo, che è quello di diffondere l’arte italiana del Novecento sulla scena londinese: Fausto Melotti: Counterpoint, a cura di Roberta Cremoncini e Giovanna Nicoletti, fino al 7 aprile. Il sottotitolo della mostra, Counterpoint (Contrappunto, da uno dei suoi titoli più ricorrenti), dice forse di più di qualsiasi commento: l’opera di Melotti è presentata essa stessa come un commento, un continuo contrappunto, tanto alla realtà quanto a se medesima. La ricerca di Melotti è infatti essenzialistica: ridurre alla struttura il mondo, spolpato fino allo scheletro, che si esalta nella sua autonomia. Fa il paio con Arabesque, Scultura C (Infinito) di tanti anni dopo (1969), che è un incrocio di tre fili d’acciaio (una base ramificata, un fusto verticale diritto, intersecato alla sommità da un ramo orizzontale a ghirigoro): un albero, evidentemente, ma anche la vita stessa, ridotta alla geometria sostanziale, infinitamente riproducibile e infinitamente misteriosa.
Melotti era un matematico: aveva studiato matematica e fisica all’Università di Pisa e si era laureato in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Milano. Matematica era per lui (zio di Maurizio Pollini) anche la musica, da cui lo studio del contrappunto, che è la forma più geometrica, col suo meccanismo di porre ogni nota a commento della precedente, tra tutte le esperienze artistiche. Di qui non nascono macchine e fili in movimento, come nell’opera contemporanea di Calder, con cui è idealmente in dialogo (cfr. mostra alla Ronchini Gallery di Londra nel 2013), ma esplorazioni concettuali, come nella bellissima ironia del Monumento al nulla (1974), dove due strutture a pali piatti e concavi di bronzo, speculari e simmetriche, ma sfalsate nella disposizione, sostengono quattro palle di ottone appese a fili di nylon. Le palle sono solo apparentemente immobili, ma in realtà non possono esserlo, data la natura della loro collocazione: col risultato che viene voglia di farle sbattere contro i sostegni che le mantengono, come in uno strumento musicale.
È questa zona tra l’immobile e il moto, l’essere e la vita, che interessa a Melotti, il cui sguardo è sempre, ironicamente, doppio, rivolto alla realtà e alla sua trasfigurazione, all’arte e al suo effetto. Basta prendere un’altra delle sue sculture in ottone, La coscienza inquieta (1973), che sembra una figura di donna dal vestito leggero e dai capelli mossi dal vento, il cui volto è uno specchio, cioè noi, lo spettatore: un’astrazione che non punta alla perfezione, insomma, ma che instaura dialogo, chiede la cooperazione interpretativa, sfida l’intelligenza e spiazza lo sguardo.
Nulla è fisso nelle sue geometrie, soprattutto i Contrappunti che attraversano tutta la sua carriera, dagli anni trenta (quando non si chiamavano ancora così, ma erano già tali in sostanza) fino agli anni settanta: architetture di acciaio e ottone che alternano strutture e vuoto, come in Scultura n. 17 (1935), Giardino pensile (1970) e Contrappunto catenelle (1973). Oggetti di arredamento e riflessioni metafisiche insieme, le sue sculture fluttuano nello spazio, al di sopra del tempo, come volessero catturare l’eterno eppure collocarsi nell’hic et nunc. Alla loro sottigliezza si ispirò Italo Calvino per la fantasia borgesiana delle Città invisibili: città sui trampoli, città a ragnatela, dove tutto è aereo, rarefatto, distaccato. Alle spalle ci sono Kandinsky e Klee (cui venne affiancato in una mostra del 2013 al Museo d’Arte di Lugano, con bel catalogo a cura di Guido Comis e Bettina Della Casa), ma il suo sguardo è rivolto soprattutto al futuro, in quella terra di nessuno dove l’arte si libera e libra, circondata solo dal silenzio.
C’è anche un Melotti figurativo, tuttavia: nel gesso I Sette Savi (un elemento) e nell’ottone di L’amico leone, entrambi del 1960, l’artista (nativo di Rovereto, ma educato a Brera) ricorre a suggestioni primitive e infantili per catturare l’essenza, ma non rinuncia all’emozione, che sta nella presunzione d’impassibilità della saggezza e nel misto di aggressività e paura dell’animale. Poesia del razionalismo, con un’ossimoro solo apparente, perché la perfezione asettica si dà solo nel prima o nel dopo: nel mezzo c’è l’arte che l’insegue, intravedendola senza raggiungerla. Passando anche per le sue famose ceramiche (in mostra un piccolo Orfeo, 1945 circa), il Melotti dalle radici futuriste, surrealiste e costruttiviste diventa un filosofo dell’arte: «La melanconia è l’anima stessa dell’opera d’arte, perché testimonia melancolicamente la nostra perduta armonia» (Fausto Melotti, Linee).