Preferite la tricche taccara o la lavannarella, la ‘mpagliasegge o lu maruzzaro? Mestieri di fine ottocento, protagonisti di piccole gouaches sonore, canzoni che saltellano tra riviste, fogli volanti e copielle, venditori ambulanti che attraggono col loro canto clienti e turisti stranieri, serenate e tarantelle ascoltate nelle strade e cresciute con l’accompagnamento di un pianoforte. Per tanti anni simbolo della melodia nazionale e biglietto da visita della città, la canzone napoletana risorge ciclicamente dalle sue ceneri, stavolta per un rinnovato fervore di studi approfonditi tra università, associazioni e istituzioni. Il musicologo e docente d’ateneo Pasquale Scialò ha lavorato a lungo per questo nuovo volume, Storia della canzone napoletana 1824-1931 (Neri Pozza, 336 pg, euro 28, con traduzione in italiano delle liriche delle canzoni, spartiti, un ricco apparato iconografico e persino un cd con 21 brani, tutti grandi classici e alcune rarità) di piacevolissima lettura, per la copiosa quantità d’informazioni e una rigorosa analisi musicale, con un approccio multidisciplinare mischiando le scritture del pentagramma con la storiografia e la cultura cittadina.

 

 

All’inizio la trascrizione di testi di tradizione orale è merito del rampollo di una famiglia alsaziana, trasferitasi sotto il Vesuvio, Guglielmo Cottrau, che ha il vizietto di “aggiustare” le melodie popolari spontanee nonché di essere ricercatore, compositore ed editore musicale, tanti cappelli da mettersi in testa. I materiali diversi trovano anche spazio e forma più aggraziata nel salotto borghese dove si ritrovano compositori colti, riuniti nelle “periodiche”, gli incontri a cadenza fissa. É il periodo della festa di Piedigrotta, nata intorno alla chiesa di Santa Maria, sul luogo di antichi rituali di pellegrinaggi pagani, celebrata la sera del 7 settembre che si lega indissolubilmente alla canzone napoletana, occasione per una gara di canzoni (con presentazione dei nuovi brani, l’inizio del periodo commerciale) e festeggiamenti con corteo di carri e personaggi in costume, sfilata accompagnata da “un fragore sconcertante, esasperato dalla presenza degli scucciamienti, tradizionali strumenti napoletani, pensati proprio per infastidire: trummettelle e trummettone, zerrì zerro, cchiò cchiò, pettene, sunagliera, tofa” insomma dagli aerofani alle grosse conchiglie bucate.

 

 

 

Con orecchio attento alle trasformazioni cittadine e alla fusione di nuove sonorità, sono tante le stagioni da attraversare, dal primo tormentone urbano Te voglio bene assaje, testo dell’ottico Raffaele Sacco e musica di autore ignoto, alle magnifiche invenzioni del poeta Salvatore Di Giacomo (autore di oltre duecento brani musicati, tra cui Era di maggio) all’inno degli emigranti, Santa Lucia Lontana, di E.A. Mario, dove si fondono la malinconia e la lontananza delle tante famiglie andate oltreoceano, che presterà il fianco a numerose ironiche parodie, come quelle davvero esilaranti di Farfariello. Tutti i generi sono rappresentati, dalle canzoni drammatiche, alle «macchiette» create da Ferdinando Russo per il buffo Maldacea, trionfatore in teatri e café-chantant coi suoi travestimenti fino al cantautore di matrice teatrale (e brillante commediografo) Raffaele Viviani, che porta nei suoi brani l’universo degli strati plebei, degli emarginati della città come So’ Bammenella ‘e copp ‘ ‘e Quartiere e ‘O sapunariello, col frenetico rincorrersi delle voci di un mercato, Rumba d’e scugnizze.

 

 

Così, in un perenne ritorno alla nostalgia dei tempi antichi, la canzone Lo guarracino, una divertente zuffa tra pesci a imitazione dei rumorosi scontri tra capere, vaiasse e zite, avrà numerose versioni e interpreti, con risposte e varianti d’ogni tipo fino ad arrivare a un Guarracino lgtb evocato dal cantautore licenzioso e scombinato Gianfranco Marziano.