Inquadrato tra l’arrivo e la partenza i un taxi, Melbourne di Nima Javidi è il primo film d’esordio presentato dalla Settimana della Critica. Le generazioni di cinema iraniano si susseguono, con la caratteristica di un livello sempre alto di realizzazione e questo non fa eccezione, anzi ci porta una visione nuova della realtà iraniana soprattutto perché il racconto si fa geometrico, astratto. Un calcolo di sceneggiatura abbastanza vicino allo stile del protagonista, un giovane ingegnere chiamato per un colloquio di lavoro a Melbourne, dove si sta trasferendo per alcuni mesi con la moglie Sara (Negar Javaherian).

Lo interpreta Payam Maadi un attore ormai famoso anche internazionalmente dopo il premio Oscar a Una separazione, nato a New York da famiglia iraniana ed effettivamente laureato in ingegneria. Regalando alla figura di Amir quelle sfumature di apparente solidità, incertezza, pavidità, gentile irresolutezza e scoramento controllato che abbiamo già notato nei personaggi maschili di alcuni film della nuova generazione. I due hanno preparato le valigie, stanno aspettando il rigattiere perché venga a ritirare i mobili che gli hanno venduto, scherzano su skype con un amico.

Solo fanno attenzione a non svegliare il neonato che la babysitter del vicino ha lasciato nella loro casa per un impegno urgente da sbrigare fuori. Un quadretto familiare che promette novità piacevoli per la coppia. Ma già un indizio è seminato, con l’arrivo dell’addetta all’anagrafe che sta controllando gli abitanti del condominio, prima presenza esterna che si intromette nella loro vita, indizio di catalogazione.

Come fosse un controcampo dei film iraniani ambientati per le strade (e in particolare pensiamo al film in concorso Tales di cui parliamo qui accanto e che espone numerosi spaccati di vita), qui tutto avviene tra le mura dell’appartamento che si trasforma un po’ alla volta e sempre più convulsamente in una cittadella assediata, colpita come da proiettili dagli squilli dei cellulari, del telefono fisso, del videocitofono, dello schermo del computer, tutte «armi di distrazione di massa» moderne che qui giocano un ruolo chiave.

Come dicono gli sceneggiatori, in un film deve esserci il «deragliamento del treno»: in questo caso il momento culminante è segnato dal fatto che Amir si accorge che il neonato che dormiva sul lettone non respira più, è sicuramente morto. Entra in scena il thriller dotato di una interessante connotazione che unisce due tipici elementi cari al cinema iraniano: il senso di panico che deve crescere nello spettatore e la catalogazione della società.

Poiché i personaggi sono chiusi in trappola nell’appartamento non riuscendo a prendere una decisione su come risolvere il drammatico evento, è la società intera ad affacciarsi via via alla porta, sotto forma di vicini, rigattieri e ragazzi di bottega, padroni di casa, madri, sorelle, nipotini. Sotto forma di squilli ossessivi di cellulari che incrociano e moltiplicano le visite. Protettivamente Amir fa in modo che la moglie resti il più possibile chiusa nella camera da letto per evitare di dover interagire con il padre del neonato (dietro cui si indovina una oscura storia parallela) ma poi non è in grado di prendere alcuna decisione in merito. Procrastina, depista. Che fare? Certo non sveleremo l’intreccio, possiamo solo dire che si tratta di un fantastico congegno, un esordio eccellente.