Sul palco sa catturare come pochi artisti l’attenzione: una calma quasi ieratica, un timbro scuro e riconoscibile e l’attenzione maniacale per i dettagli. Melanie De Biasio, madre belga e padre italiano, è ormai da qualche anno uno dei personaggi di maggior rilievo della scena jazz europea anche se il suo repertorio, in realtà, ingloba altri stili e si fonde con differenti atmosfere. Il 30 aprile sarà al Piccolo Regio Giacomo Puccini nel capoluogo piemontese nell’ambito del Torino Jazz Festival, occasione per ascoltarla nella dimensione a lei più congeniale, quella di interprete e flautista accompagnata da Alberto Malo alla batteria, Pascal Mohy al pianoforte e Pascal Paulus alle tastiere e alla chitarra.

Un percorso fatto di (duro) studio: si avvicina al mondo artistico da bambina, anni di danza, si diploma in canto e rivela il suo talento al flauto così che appena dodicenne si unisce all’Ensemble de l’harmonie de Charleroi con cui parte in tour per un mese. Ma parallelo al jazz, Melanie vive anche di altri amori, come il rock, dove sfoga la sua passione per band come i Nirvana, per poi tornare al jazz. Eccellente flautista collabora con stelle del jazz belga come Pascal Mohy, Michel Herr, Jan de Haas e Philippe Aerts, fino a che arriva nel 2007 l’album di debutto A Stomach Is Burning – che si aggiudica il Best jazz albums e nel 2013 con No Deal conquista un pezzo di pubblico molto più vasto, anche grazie agli apprezzamenti da parte di colleghi come Philip Selway dei Radiohead, Damien Rice, Eels fino ad Arno. «È un album – raccontava all’epoca dell’uscita – che nei suoi 34 minuti parla di una relazione, che può essere la mia ma anche quella di tutti, fatta di silenzi, luce e movimento».

La voce sensuale e dal timbro penetrante, non lascia indifferenti. Ci arriva attraverso un percorso doloroso a causa di una infezione polmonare (i medici non le assicurano di poter tornare ad esibirsi) che la costringe a cambiare modalità di canto, sfruttando non più la potenza bensì il controllo e l’interpretazione. Quello di Melanie De Biasio è quindi un canto minimale, estremamente dilatato, ancor più scarnificato come dimostra nel 2016 l’ep Blackened Cities composto da un unico brano di ben 24 minuti. Un disco dove è chiaro ormai come la connotazione jazz le stia decisamente stretta, una nuova dimensione palesata in Lilies, pubblicato lo scorso anno: «Capisco che la gente abbia bisogno di riferimenti – spiega l’artista raggiunta telefonicamente, ma personalmente ho l’impressione di non restare ferma a un genere particolare. Quando inizio a registrare un disco non so mai in realtà dove andrò a finire. Trovo che la mia dimensione più congeniale vada di pari passo con l’istinto, senza una mappa o una bussola».

Il nuovo lavoro, sottolinea ancora la musicista belga: «È scuro e al contempo luminoso. È pensato per non contenere nulla di tradizionale. Penso si possa immaginare come un abbraccio fatto di libertà, ambizione, creatività sincera e in cui forse è vero, ci si possono ritrovare echi di Billie Holiday fino ad arrivare ai Portishead. Ma tutto visto attraverso occhi diversi».

Molti dei brani inseriti in Lilies verranno presentati durante la data torinese come quello che intitola l’album, una ballata dai tempi sospesi giocata su poche note e un sussurro ripetuto che diventa quasi un mantra. In Golden junkies ostenta invece tentazioni decisamente blues: «Sì, è vero credo di avere questa anima nemmeno troppo nascosta che a volte emerge in maniera prepotente. Anche perché il mio modo di intendere la musica mi porta a non essere troppo celebrale, cerco di partire sempre dal cuore: il respiro e la voce arrivano in effetti da lì, anche perché se è la testa a prendere il controllo si perde completamente la spontaneità. Sì, ragionando su queste modalità credo che si possa parlare di blues…».

La voce è al centro del progetto di Melanie, ma l’interplay con i suoi musicisti è fondamentale per fare emergere dal vivo ogni nuance del suo stile: «Tendenzialmente come ho già detto, preferisco l’improvvisazione anche se quando arrivo in sala registrazione ovviamente certe parti sono definite. Ma dal vivo devo capire la situazione e ho bisogno di confrontarmi con la band. La cosa più importante è mantenere la mente aperta: cosa devo fare o ancor meglio cosa possiamo fare insieme?». Non solo musica, l’artista belga è tra gli artefici nel 2011 di un progetto in Belgio insieme a un gruppo di carcerati, una performance che inglobava canto, danza, sperimentazione: «In realtà – specifica – non l’ho realizzato in prima persona, ma vi ho collaborato. Ma è stato un momento importante per me, come artista e come persona».

Sulle sue influenze musicali, ha specificato in passato che: «Alcuni di quelli a cui mi paragonano, tipo i Talk Talk, non li avevo mai sentiti nemmeno nominare. Jeff Buckley o Portishead invece li ascoltavo quando avevo 15 o 16 anni e perciò la loro influenza arriva da lontano, è quasi inconscia. Lo stesso vale per la musica classica, che ho assimilato quando da bambina passavo le ore da mia nonna, ascoltando alla radio la Callas o Pavarotti. Il conservatorio invece mi ha dato le radici del jazz e del blues, che credo sia ciò da cui derivi tutto. Sono influenzata da tutto quello che mi circonda e ascolto ma voglio creare un mio percorso e prendo solo quei semi che possono trovare terreno fertile in me».