Mio figlio si è tolto la vita». «Mio padre si è ammazzato». «Mia sorella si è suicidata». Mio marito, mia moglie, mio cugino, la mia amica sono morti in carcere. «Era in galera da pochi mesi». «Era disperata, sola». «Stava male, aveva già tentato di ammazzarsi varie volte». «Era all’inizio della pena». «Avrebbe dovuto essere liberato». «Era dentro per un avere rubato una pecora». Ogni volta che sulla posta elettronica di Antigone o nei nostri telefoni arrivano mail o chiamate di questo tenore, ci si spezza il cuore.

Chi, tra amici e familiari, resta in vita è basito, distrutto, vuole sapere quello che è accaduto. Quella del suicidio è una notizia che arriva, non di rado, a distanza di troppo tempo dall’ultima visita, dall’ultima telefonata. Una notizia che non si vorrebbe mai avere. Dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 48 persone. Quasi una ogni mille persone recluse. Se si fossero ammazzate dall’inizio dell’anno 60 mila italiani liberi, ovvero la stessa proporzione dei detenuti suicidati rispetto al totale della popolazione reclusa, avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione, anche di fronte a un governo dimissionario, anche con le elezioni alle porte e con l’obbligo di non uscire dal confine degli affari correnti. D’altronde, le emergenze ben possono essere ricondotte nei limiti di ciò che è affare corrente di cui occuparsi. È una questione etica, oltre che politica.

Ha fatto bene il Dap a ricordare allo staff penitenziario tutto ciò che deve essere fatto per prevenire un atto suicidario in termini di attenzione, presa in carico multidisciplinare e sorveglianza. Siamo ad agosto, fa caldo, il personale è in ferie, le attività di formazione e intrattenimento sono sospese, la scuola è chiusa. I rapporti con l’esterno si rarefanno drammaticamente nei mesi estivi. Alla solitudine della prigione si accompagna una sensazione di abbandono, di isolamento dal mondo.

Se questa è la condizione diffusa in agosto nelle carceri italiane, non c’è motivo perché si impedisca al detenuto di avere contatti personali telefonici quotidiani con i propri cari. Il nostro Regolamento penitenziario, che ricordo non è una legge, ma un atto amministrativo del governo avente fonte normativa secondaria, concede una telefonata a settimana per soli dieci minuti tendenzialmente solo ai familiari e non agli amici, e questo ha dell’incredibile. In qualche caso negli istituti sono autorizzate telefonate straordinarie da direttori disponibili. Bisogna intervenire su questa norma, adesso, subito.

Una telefonata a una persona vicina, amata può salvare la vita. Una telefonata di questo tipo non può che essere estemporanea; avviene quando la mente è occupata da pensieri tragici, di morte. Oggi sono consentite poche telefonate programmate in orari prestabiliti. Alle donne e agli uomini in carcere non devono essere tagliati i legami, i ponti con l’esterno. È inumano, nonché in netto contrasto con una idea di pena che deve tendere al reinserimento dei condannati. Vanno messi i telefoni in cella dando a disposizione ai detenuti quattro/cinque numeri da comporre, con tutte le verifiche del caso. La Francia lo ha previsto nel 2018. Va data la possibilità di chiamare giornalmente le persone selezionate. Un’unica eccezione potrebbe riguardare quei detenuti per i quali sono previste precauzioni legate al reato commesso.

È inutilmente vessatorio negare al detenuto la possibilità di chiamare un amico o un parente quando ne sente il bisogno (anche solo per sentire la sua voce, per chiedergli scusa, per farsi convincere a non impiccarsi alle sbarre con le lenzuola). È una forma crudele di etero-controllo delle emozioni e dei sentimenti. È qualcosa di anacronistico che rende i detenuti ancora più soli e ancora più disperati.

Il governo avrebbe dovuto approvare quanto suggerito dalla Commissione per l’innovazione penitenziaria presieduta dal prof. Marco Ruotolo. Non lo ha ancora fatto. Dia un segnale, adesso, in una direzione che si chiama «dignità umana». Tutti quelli che dicono di rispettare la vita, anche tra i futuri governanti, non si oppongano per racimolare una manciata di voti di persone incattivite.