Roland Barthes ha sostenuto che Voltaire fu l’ultimo scrittore felice, tra l’altro perché ha potuto dimenticare la storia, alla quale viceversa si espose Rousseau, il suo antagonista. Di questa affermazione sembrerebbe lecito dubitare di fronte alle quasi duemila pagine del suo capolavoro storiografico, il Saggio sui costumi e lo spirito della nazioni, uscito da Einaudi, a cura di Domenico Felice (che l’ha tradotto insieme a Lorenzo Passarini, Fabiana Fraulini e Piero Venturelli, con un’introduzione di Roberto Finzi, 2 voll. pp. 866 + 963, € 150,00; l’unica precedente traduzione, dovuta a Marco Minerbi, era uscita nel 1966-67).

Sebbene si basino sull’edizione critica in corso di pubblicazione (Oxford, Voltaire Foundation, 8 voll. finora usciti, 2004-15), questi due tomi prendono garbatamente le distanze dalla ridondante erudizione delle note di commento, con il risultato di aprirsi a un pubblico di lettori il più largo possibile senza rinunciare al rigore scientifico, che è esattamente ciò a cui miravano gli illuministi.

La pubblicazione del Saggio, cui Voltaire lavorò a partire dal 1740, segnò una tappa nella storia della cultura settecentesca, perché diventò (insieme a L’esprit des lois di Montesquieu) una delle principali fonti d’ispirazione di tutta la storiografia del maturo illuminismo, che sarebbe culminata nella monumentale History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon, capolavoro che sa fondere la tradizione erudita con la filosofia della storia dei philosophes, la cui più ambiziosa formulazione si trova proprio nel libro di Voltaire.

Il senso dell’impresa, ovvero le finalità che l’illuminista perseguiva, comprende innanzi tutto l’idea di una storia «universale», di cui è al tempo stesso ispiratore e nemico da battere il Discorso sulla storia universale del vescovo, teologo e grande oratore Jacques-Bénigne Bossuet. Di lui Voltaire ammirava, oltre alla prosa eloquente, l’aspirazione a una storia che componesse in un quadro complessivo quella delle singole nazioni e fosse – aveva scritto il teologo – come una carta geografica generale che comprende le mappe particolari; ma questo passaggio implicava il sacrificio dei dettagli, la determinazione del criterio con cui selezionare ciò che si sacrificava e quanto si conservava.

Contro la vana erudizione

Bossuet se l’era cavata facilmente, affidandosi alla concezione cristiana della storia: sebbene si dica «universale», sostiene Voltaire, l’opera di Bousset privilegia indebitamente la storia dei pochi popoli in seno ai quali si sviluppò e si diffuse il cristianesimo, a partire da quello ebraico, piccola nazione di scarsissima importanza nei confronti delle grandi civiltà antiche ed extra-cristiane, come la civiltà islamica o quelle fiorite in Cina o in India.
Il panorama di Voltaire cerca invece di abbracciare l’intero globo e a questo scopo non esita a sacrificare molte delle informazioni accumulate da quella che considera una vana erudizione: miti, leggende, prodigi registrati con la massima serietà dalla storiografia antica (dalla Bibbia come da Erodoto), ma anche le notizie pazientemente tramandate da annalisti e storici moderni sugli sviluppi delle guerre, sugli intrighi diplomatici o sulle successioni dinastiche. Ciò di cui conviene occuparsi sono invece, per Voltaire, i «costumi» e lo «spirito» delle nazioni.

Nella coeva Encyclopédie i mœurs sono definiti «azioni libere degli uomini, naturali o acquisite, buone o malvagie, suscettibili di essere regolate e dirette. La loro varietà presso i diversi popoli del mondo dipende dal clima, dalla religione, dalle leggi, dal governo, dai bisogni, dall’educazione, dalle maniere e dagli esempi». Diderot, autore della voce, cita Montesquieu, secondo il quale lo «spirito generale» di una nazione si forma dall’insieme dei seguenti fattori: «il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi delle cose passate, i costumi, le maniere».

Dunque, mentre Montesquieu cerca di definire lo «spirito generale» di cui farebbero parte i «costumi», Diderot indica gli stessi fattori, a cui aggiunge i «bisogni» e l’ «educazione», ma lo fa per descrivere i «costumi», e non lo «spirito», dimostrando quanto siano fluidi questi concetti e quanto circolanti uno nell’altro, senza che sia possibile individuare una rigida gerarchia interna, sebbene poi ogni scrittore scelga di accentuarne questo o quel fattore.

L’influenza del clima, per esempio, enfatizzata da Montesquieu ma sostanzialmente negata da Helvétius in De l’esprit, viene ridimensionata da Voltaire, più interessato alla religione o alla dimensione economica, al commercio soprattutto, ma anche alle condizioni materiali di vita di quelle che oggi diremmo le masse. È così che a proposito dei selvaggi, tema allora assai dibattuto, nota come un urone o un irochese, un cafro o un ottentotto, siano più liberi e stiano meglio dei «nostri selvaggi», vale a dire dei contadini europei. La sua intenzione è studiare «in generale la sorte degli uomini piuttosto che i mutamenti sul trono». E aggiunge: «È al genere umano che si sarebbe dovuto prestare attenzione… ma la maggior parte degli storici ha descritto battaglie».

Il disprezzo di Voltaire per l’erudizione venne criticato fin da subito, ciò che scatenò la vendetta dei dotti di turno, che cominciarono a rilevare una per una tutte le inesattezza e gli errori contenuti nel Saggio; persino uno storico come Robertson, che dichiara di essersene ispirato nel suo View of the progress of Society in Europe, confessa tuttavia di non averlo mai citato, proprio perché Voltaire non riferisce le sue fonti, come fanno gli «storici moderni», e quindi non consente una discussione approfondita delle questioni più problematiche.

Elementi per una battaglia

In verità Voltaire utilizza volentieri Bayle e gli esponenti del cosiddetto libertinismo erudito, che gli offrirono armi per la sua battaglia contro la superstizione e l’intolleranza; quanto alla critica delle fonti, la sua attitudine fu determinata dalla convinzione per cui «ogni certezza che non è dimostrazione matematica non è altro che un’estrema probabilità». Ma è forse l’aggressiva polemica anticlericale a testimoniare esemplarmente i limiti di un razionalismo che imputa i conflitti religiosi solo all’ignoranza e alla superstizione, di cui approfittano i preti e i potenti, senza comprenderne le basi sociali. La storia è l’oggetto di una ragione che la indaga e la giudica, ma che non è essa stessa storica: ecco ciò che, secondo la paradossale tesi di Barthes, tiene Voltaire al di qua della storia, anche quando la indaga con l’appassionata volontà di denunciare le storture che hanno oppresso l’umanità.

Nonostante queste debolezze, il Saggio riesce a costruire un imponente affresco che abbraccia i novecento anni compresi tra l’età di Carlo Magno e Luigi XIII, cioè dall’VIII al XVII secolo: la prospettiva dalla quale si guarda è ovviamente quella dell’Europa occidentale, ma ottengono un ampio spazio le vicende di tutte le civiltà con cui essa è venuta a contatto, da quelle più vicine (l’impero bizantino e l’Islam) a quelle più lontane (le Americhe, l’india, la Cina, l’Africa), senza dimenticare che la lunga introduzione (da principio pubblicata a parte con il titolo di Filosofia della storia) propone un sintetico panorama dei più lontani antefatti, a partire dalla comparsa della specie umana, con un capitolo iniziale dedicato addirittura alla formazione del globo terrestre.

Il Saggio resta così una splendida testimonianza dei «costumi» e dello «spirito» dell’illuminismo, nonché la prova della capacità di una acuta intelligenza critica e di un stile straordinariamente brillante nel cogliere i grandi temi e i nodi del periodo studiato: forse non c’è capitolo del libro, o quasi, che lo stesso Voltaire non vorrebbe riscrivere oggi, ma quel che continua a catturare il lettore è la grandiosità del disegno complessivo, il suo ritmo nel dipingere fatti che suggeriscono di tornarci su.