ExtraTerrestre

Meglio asciugarlo via. Due passi nell’album dei venti di famiglia

Un tempo gli eremiti impiegavano anni e anni, decenni, vite intere, a racimolare pensieri, poesie, brani, che in seguito dimenticavano su alcuni fogli e qualcuno, spesso dotato di un’esistenza successiva, […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 6 dicembre 2018

Un tempo gli eremiti impiegavano anni e anni, decenni, vite intere, a racimolare pensieri, poesie, brani, che in seguito dimenticavano su alcuni fogli e qualcuno, spesso dotato di un’esistenza successiva, organizzava e avviava alla stampa. Di questa sottile, duttile ma sostanziosa tradizione ci restano opere dell’incanto e dello spirito che nelle nostre mani sono precipitate dopo secoli. Ora, nel volgere di un lustro, decine, anzi, centinaia di scrittori sono andati a comporre titoli su titoli dedicati a ogni forma di natura, e ti viene il sospetto che vi sia un’epidemia di figli di Kennedy e Roosevelt, dei Savoia e degli Agnelli con l’irresistibile passione per rose scarlatte e lunghe passeggiate. Possibile, ti scopri a chiedere a te stesso, che tutti questi signori e signore abbiano tanto tempo libero? Cos’è tutto questo florilegio di nouvelle écriture impressionniste? Dov’è finito, santo il cielo, il romanzo, l’invenzione letteraria, la famigerata fiction? In un modo o nell’altro è un fatto che tutto questo attuale gonfiare l’aria, tutto questo caricare le città di carta e gli scaffali delle librerie e delle biblioteche, di pubblicazioni incernierate su termini e concetti quali il silenzio – quanti fiumi d’inchiostro per evocarlo e annunciarlo, quando basterebbe semplicemente sospendere ogni azione, tacere e socchiudere gli occhi? – i boschi, la pace, gli elementi tutti, sia oramai straripante. È perturbante. Nel mare mobile di queste penne che studiano il selvatico contemporaneo, figura Mario Ferraguti, parmense, già autore di una decina di opere letterarie e documentari, nonché corresponsabile di spettacoli teatrali, indaga il confine del mondo appenninico che sorge a cavallo fra superstizione, mondo naturale superstite e magia.

Due anni fa la Ediciclo di Portogruaro diede luce a La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio, uno dei titoli più illuminati della collana Piccola filosofia di viaggio, nella quale ora si bissa con La ballata del vento. Piccolo ma ostinato inseguimento. C’è della maniera nella scrittura percorsa da autori che si ostinano a navigare opere di carattere speculativo e allora mi chiedo: non sarebbe dunque arrivato il momento di sospendere queste scritture che oramai si rincorrono l’un l’altra, cari amici autori e cari amici editori? Due, tre anni di pausa. Magari cinque. Una domanda retorica, poiché si sa, abitiamo l’epoca dell’appagamento del desiderio, del sogno perennemente rincorso e talora raggiunto. Certo, è vero, leggere un Ferraguti vale sempre l’impegno, La ballata del vento è un diario di contemplazioni ed episodi, un piccolo album di venti familiari che l’autore ha voluto imprigionare nelle sue pagine. Fra i diversi, cito ad esempio un passo incantatorio che si incontra alle pagine 63-64, dedicato ai miei amati alberi: «Sono alberi magari molto giovani ma tanto consumati da sembrare antichi, oppure alberi vecchi che non sono mai cresciuti; insomma, a fermarsi e guardarli, si capisce che il vento li ha talmente tanto disturbati da cambiargli natura. Sono ancora alberi sì, ma la loro forma è per sempre modificata. Sono alberi in avanti, come le cornacchie giganti, una nuova specie che non punta come tutti gli altri al cielo.

Quando sono freschi tutti gli alberi, di qualsiasi tipo, non vanno assolutamente bene da bruciare, fanno fumo; lo fanno, dice Berto – un boscaiolo – convinto, perché devono smaltire il vento Che tutti i tronchi degli alberi sono pieni di vento, e si sente, quando li metti nel fuoco, che se ne hanno ancora tanto, fanno come un sibilo, un soffio; e quello è il vento che esce». Sempre che non soffi a duecento km all’ora come nel recente tornado che ha travolto Veneto e Trentino.

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