Le ultime elezioni nelle due sponde dell’atlantico confermano che il vecchio assetto dei paesi avanzati è in una fase di transizione. Si esaurisce quella precedente che, sull’onda dell’impetuoso sviluppo della globalizzazione dei mercati, aveva visto forze conservatrici liberali e socialdemocratiche convergere sulle stesse politiche.

Fino a cancellarne le differenze. Si stanno manifestando, al contrario, tendenze che divaricano le forze politiche.

A destra, alimentato da concorrenza economica e migrazioni di massa, si registra uno slittamento dal liberismo verso il protezionismo (Trump ai populismi europei).

A sinistra si registra un progressivo indebolimento delle forze tradizionali e l’emergere di nuove soggettività di sinistra sia dentro i grandi partiti storici (Sanders. Corbyn) che in formazioni nuove (Podemos…). Tutte hanno un elemento comune che fa ben sperare per il futuro: il protagonismo delle fasce giovanili della popolazione.

In sintesi le due grandi aree – progressista e conservatrice – si radicalizzano e tendono a divaricarsi. E, come sempre accade nella storia, nel disfacimento che trascina le forze abbarbicate al passato – come i socialisti e repubblicani francesi – non mancano tentativi di rinverdire il centro come quello di Macron.

Come si colloca, dentro questi megatrend che percorrono i paesi avanzati, il mondo politico italiano? In maniera assolutamente inadeguata.

Restando prigioniero di un dibattito tutto centrato sulle forme della politica, riforme costituzionali prima, legge elettorale dopo, lontano da problemi, obiettivi, contenuti, visione del futuro. Quando il primo partito, il partito di governo, passa da un giorno all’altro dal maggioritario al proporzionale, da una disponibilità ad allearsi con Berlusconi alla proposta di allearsi con Pisapia (magari solo al senato dove la soglia alta è un buon incentivo/ricatto), da elezioni subito ad elezioni tra pochi mesi, vuol dire che siamo nelle mani non di uomini di stato, ma di improvvisatori della politica senza una visione ed una strategia, guidati solo da interessi immediati e personali. Insomma dai megatrend alle micro miserie nazionali.

Anche in quella specifica anomalia italiana, costituita dal M5S, la situazione non appare migliore.

Il tentativo ambizioso di fuoriuscire dalla crisi dei soggetti tradizionali con una via autonoma ed originale di democrazia digitale e di nuova partecipazione collettiva, superata la prima fase dello scossone al sistema, sta mostrando i suoi limiti. Non si trasmette nei gangli vitali e locali della società facendo emergere una nuova classe dirigente diffusa. E, laddove deve fare i conti con l’assunzione di responsabilità su grandi temi come la riforma elettorale, non riesce a sottrarsi alle vecchie logiche del compromesso. Finisce così, su temi cruciali come la rappresentanza e la difesa delle minoranze, per far prevalere gli interessi di partito – in questo caso di movimento – su quelli generali (così è stato con lo scarso sostegno al doppio voto e con quello eccessivo al premio di maggioranza). Insomma niente di nuovo sotto il sole.

Tranne l’ingenuità di cadere nella trappola tesa su un voto parlamentare secondario e di apparire, nella gestione Di Maio, sempre più moderati ed in perfetta continuità con la rincorsa al centro per allargare il consenso.

Fine di una anomalia? Vedremo. Di certo altre delusioni per un elettorato già provato da tante promesse di cambiamento ed altra acqua al mulino dell’astensionismo diventato oggi il vero primo partito.

Ma anche spazi possibili per la sinistra.

Spazi, però, non occupabili se non si affrontano due domande cruciali: come mai nel paese del più grande partito comunista d’Europa non siamo riusciti né a partorire il nostro Corbyn o Sanders – ed anzi abbiamo consegnato l’eredità di quel partito al tardivo seguace di un Blair rottamato dalla storia, ad un giovane che, come politico, più vecchio non si può? E come mai non siamo riusciti nemmeno a creare, oltre il Pd, movimenti nuovi come ad esempio in Spagna o in Grecia? Le due risposte naturalmente si intreccerebbero e richiederebbero una riflessione ed uno studio ben oltre lo spazio di un articolo. Ma in politica contano i tempi. Ed oggi, a sinistra del renzismo, abbiamo una varietà di collocazioni e sfumature di rosso senza precedenti. E, programmati, una serie di appuntamenti che si caricano di aspettative.

Se solo potessimo assumere la tendenza di fondo enunciata in apertura, la necessità di mettere un punto alla subordinazione della sinistra al neoliberismo.

Se potessimo assumere le esigenze di una maggiore radicalità per combattere le disuguaglianze, per aprire una fase nuova di redistribuzione di ricchezza, redditi, poteri, di accesso all’istruzione ed alla cultura, potremmo legare con un filo unitario i diversi appuntamenti. Se poi in questo processo potessimo unire soggetti che provengono dall’impegno politico nei partiti, nei movimenti e nei territori ed altri che sono emersi dalle più recenti esperienze di lotte per i diritti civili e costituzionali, la risposta alle due domande potrebbe non essere così difficile come sembra.

Comunque vale la pena provarci.