Con la fine dell’Urss e del Patto di Varsavia si prospettarono due vie.

La prima consisteva in una drastica riduzione degli armamenti in un mondo pluripolare, votato al negoziato ed alla cooperazione.

La seconda era rappresentata dalla possibilità per gli Usa e la Nato di perseguire un più accentuato ed unilaterale espansionismo.

La storia dell’ultimo venticinquennio mostra bene il dispiegarsi di questa seconda scelta. L’espansione è cominciata subito, nel 1991, e, alterando gli scopi statutari della Nato, si è proiettata ben al difuori dell’area nord-atlantica. Essa si è svolta ad ondate successive in quattro direttrici principali.

La prima riguarda la lunga marcia ad Est con 12 interventi militari nei Balcani, tra il 1992 e il 1999, il progressivo inglobamento nell’Alleanza di 10 paesi ex alleati dell’Urss, tra il 1999 e 2004. La loro adesione anche all’Unione europea completa, fino a renderlo esplicito, il ruolo dirigente assegnato dagli Stati Uniti alla Nato nel processo d’integrazione europeo. I primi anni Duemila sono decisivi anche per l’altra direttrice espansionistica volta al saldo controllo del Medio Oriente.

La guerra iniziata nel 2001 in Afghanistan si trasforma ben presto in un’occupazione permanente. Tra il 2001 e 2006 si susseguono patti sempre più vincolanti tra la Nato ed Israele.

Nel 2003 inizia la seconda guerra del Golfo con l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa, della Gran Bretagna e altri «volenterosi». Ha inizio una devastazione pluriennale senza giustificazioni né esiti se non la volontà di rinsaldare il dominio sul Golfo Persico.

Dal 2008 assistiamo ad una terza spinta espansionistica con il pattugliamento del gruppo navale Nato nell’Oceano Indiano in funzione anti Iran e per riprendere il controllo della Somalia.

Nel 2011 è la volta del Mediterraneo. Se non è più tollerato il potere raggiunto da Gheddafi, anche regimi filo-occidentali come quello del tunisino Ben Ali e dell’egiziano Mubarak hanno conseguito un’autonomia e influenza locale considerate eccessive per gli interessi degli Stati Uniti e dei loro principali alleati.

Tanto meno è tollerabile la permanenza al potere del siriano Assad, nettamente schierato con gli avversari. Scocca, quindi, l’ora delle «primavere arabe», seguite dall’aggressione diretta alla Libia e dalla tragica «guerra per procura» che continua a martoriare la Siria da sei anni, fino allo scontro diretto attuale. Di fronte a tanta aggressività e violenza, agli altissimi costi politici ed umani, s’impone una domanda: perché governi, partiti e media dei paesi occidentali, pur con alcune varianti, mostrano un’obbedienza indiscussa e indiscutibile alle scelte della Nato?

Il prezzo di tale subalternità può tradursi perfino in svantaggio economico e politico per i singoli paesi. Eppure le coordinate decise ai vertici dell’Alleanza sembrano fissate per tutti. La spiegazione può essere ricercata nel fatto che l’ordine internazionale così perseguito, per quanto unilaterale e miope, è funzionale alla ristrutturazione tardo capitalista che ha avuto luogo nell’ultimo quarantennio all’insegna del neoliberismo e senza trovare alcun freno alle strategie ed obiettivi perseguiti. Ciò ha portato alla formazione di un blocco di potere forte, concentrato e pervasivo quant’altri mai nei paesi del capitalismo storico.

Una sorta di megamacchina che non tollera alcun tipo di ostacolo, né ammette mediazioni e compromessi nelle politiche interne come in quelle internazionali.

Per questo, oggi più che mai, la lotta per la pace è condizione essenziale per la difesa dei diritti fondamentali delle popolazioni, del loro libero sviluppo e della democrazia. È una lotta che storicamente pertiene alle forze di sinistra e ad esse spetta il compito di rilanciarla con forza ed urgenza.