Agli inizi degli anni settanta, in una Gran Bretagna invasa dagli ex sudditi dell’impero e già in via di suburbanizzazione, Raymond Williams descriveva in The Country and the City, del 1973, la modernità come una tensione persistente tra periferie rurali e centri urbani, le cui tracce si depositavano nell’esperienza materiale delle persone tanto quanto nella loro sfera simbolica. Williams attaccava il neocolonialismo inscritto nella metafora del «villaggio globale», evocando una sensibilità metropolitana il cui codice genetico include anche tutte le mitologie associate all’esperienza del mondo rurale.

Negli stessi anni, Italo Calvino raffigurava nelle Città invisibili,il doppio volto della cittadinanza globale nella storia dell’imperatore Kublai Khan che, chiuso nel suo palazzo, attraversa le fantomatiche città di un impero in decadenza grazie alle affabulazioni di Marco Polo che gli svelano poco a poco «la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti».

Nel suo nuovo libro, La vita segreta delle città (Einaudi, traduzione di Norman Gobetti, pp. 85, € 16,00) il giornalista indiano-americano Suketu Metha ripercorre le orme di questi scrittori per raccontare la città come processo di inglobamento che ha portata planetaria non tanto perché sottrae territori alla natura, quanto perché, ovunque, colonizza lo spazio dell’immaginazione. Imponente agglomerato di poteri, corpi e strutture architettoniche, la metropoli del XXI secolo è anche città immateriale che vive un’esistenza segreta, la cui chiave d’accesso è depositata nei variopinti racconti fabbricati dai suoi nuovi abitanti a uso di tutti coloro che vivono, fisicamente e culturalmente, oltre i suoi confini.

Oppressi dalla paura del fallimento e dalla «fame di atrocità» tipica delle burocrazie occidentali, i migranti urbani sopravvivono vendendo storie, alternativamente di successo e di orrore, volte a legittimare la loro esistenza agli occhi di chi su di loro esercita potere politico o autorità morale. Metha segue gli insospettati percorsi di queste storie attraverso le megalopoli mondiali (New York, San Paolo, Rio de Janeiro, Hong Kong, Bombay) con ironia e partecipazione: «mi piacciono i pettegolezzi e mi piacciono le bugie. I pettegolezzi perché aiutano a vedere le persone a tutto tondo. Le bugie perché sono una forma elevata di narrazione, e nelle città è la narrazione che permette di tirare avanti».

Concepito come la naturale evoluzione di Maximum City. Bombay città degli eccessi (Einaudi 2004), La vita segreta delle città non offre analisi altrettanto profonde e insegue forse troppo la formula a effetto. Tuttavia, l’economia discorsiva non impedisce a Metha di dimostrare efficacemente la propria tesi: mai come ora la città è stata teatro di una «complessità morale» irriducibile a semplificazioni. E mai come ora essa ha avuto bisogno di venire documentata attraverso gli strumenti di un giornalismo letterario, capace non soltanto di elaborare fatti di cronaca e dati statistici ma anche di comprendere i processi di reincantamento che la investono.
Se la cifra sentimentale dalla città ottocentesca era lo spleen, il sentimento prevalente nella megalopoli odierna è la saudade, uno stato d’animo misto il cui significato «va da ‘mancanza’ a ‘nostalgia’ a ‘tristezza’ a ‘malinconia’». È la saudade a innervare la vita – segreta e non – degli «interlocali», i nuovi abitanti della città, che non sono «transnazionali» perché non vogliono trascendere la nazionalità, e non sono «globalizzati» perché, contrariamente ai ricchi cosmopoliti, «diventano parte delle città e delle periferie in cui si sono trasferiti, ma senza arrendervisi del tutto».
Nei loro plurimi radicamenti affettivi, e nelle loro storie di corruzione, resistenza e successo, la metropoli ritrova l’aura di benjaminiana memoria: una intensificazione della fibra nervosa generata dal sovraccarico della psiche, dall’ansia del rischio e altresì dalla speranza inebriante di potersi sottrarre al peso della storia.