«Sono tedesco. E probabilmente il primo tedesco che ha incontrato nella sua vita voleva ucciderla». «No» – risponde secco Gorbachev alla prima e forse unica provocazione lanciatagli da Werner Herzog, nel tentativo di imprimere al racconto un taglio drammatico che invece l’ex presidente dell’Unione Sovietica rispedisce serenamente al mittente. Replicando, anzi, con un tenero ricordo d’infanzia in cui torna con la memoria a una coppia di coniugi tedeschi che gestivano un negozio di dolci nel suo piccolo paese di origine.

È CON QUESTO scambio di battute che si apre il documentario Meeting Gorbachev che ha inaugurato, venerdì , la 30.a edizione di Trieste Film Festival. Commissionato dall’emittente televisiva tedesca MDR e sviluppato sulla base di tre incontri avvenuti nell’arco di sei mesi, il progetto porta la firma a quattro mani di Herzog e di André Singer, collaboratore del regista tedesco dai tempi di Apocalisse nel deserto e artefice dell’idea di coinvolgere nella realizzazione l’amico e collega, certo che il film avrebbe tratto beneficio dall’incontro tra due «giganti».

Appare lampante fin dalle prime battute che Gorbachev è, nel profondo e per sua natura, l’uomo della «distensione». Che odio, rabbia, desiderio di vendetta, non gli appartengono, incline com’è – come sottolinea lo stesso Herzog – a mettersi subito in relazione con chiunque gli si trovi davanti. Un uomo mite, carismatico, «genuino» e – nonostante il peso degli anni (87) e della malattia – ancora lucido, perfettamente in grado di soppesare ogni singola parola e di tenere testa, nel confronto, perfino a un «mostro» come Herzog.

Se il regista tedesco aveva in mente di replicare il modello di altri «portrait» come Grizzly Man, Little Dieter Needs to Fly o La grande estasi dell’intagliatore Steiner, puntando quindi sull’archetipo di racconto dell’uomo ossessionato da un sogno irrealizzabile, deve ricredersi quasi subito, accettando le regole dell’interlocutore e portando l’intervista sul piano della conversazione, amichevole e persino ossequiosa. Un Herzog che arriva a dichiarare esplicitamente la sincera ammirazione e persino l’amore suo e dei tedeschi per aver favorito la riunificazione della Germania, e perciò più pacato del solito, meno graffiante, magari distante dal «furore» del passato, ma non per questo meno appassionato. Se per una volta non possiamo toccare con mano la materia visiva, né farci sovrastare dalla ferocia della Natura, possiamo comunque affondare nella profondità della Storia, traghettati verso un «momentum» cruciale del XX secolo, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90.

«MEETING GORBACHEV» è il racconto di un uomo nella Storia. I materiali d’archivio, alternati alle testimonianze di George Schultz (segretario di Stato ai tempi di Reagan), Horst Teltschik (consulente per sicurezza nazionale di Helmut Kohl), il primo ministro ungherese Miklós Németh e il Lech Walesa di Solidarnosc, consentono di ripercorrere le tappe salienti della vita familiare e politica dello statista russo: l’infanzia contadina in una cittadina nel nulla del Caucaso, gli studi all’Università di Mosca, la rapida ascesa nelle fila del Partito comunista sovietico. La zampata del maestro si riconosce nella grottesca sequenza che infila, uno dopo l’altro, i funerali di stato dei presedenti Breznev, Andropov e Chernenko, mettendo in evidenza, con buona dose di sarcasmo, i limiti evidenti di un sistema ormai al tramonto.

DALLA NOMINA di Gorbachev alla guida del Partito nel 1985, alla Presidenza dell’Unione Sovietica nel 1990, gli eventi corrono veloci: la perestoika, la spinta all’innovazione e alla democratizzazione dell’Unione, Chernobyl, la battaglia per il disarmo nucleare di cui la Thatcher non voleva sentir parlare. La richiesta di autonomia dei paesi Baltici e, naturalmente, la fine della Guerra Fredda, «una vittoria per tutti», segnata dalla caduta del Muro e dalla riunificazione tedesca. Poi l’improvviso colpo di Stato del 1991 con l’ascesa di Eltsin che – come finisce per ammettere Gorbachev: «Forse avrei dovuto trattare più duramente e mettere al confino in un posto lontano, ma io non sono quel tipo di persona». Le conseguenze le conosciamo: la disgregazione dell’Urss, le dimissioni forzate, l’avanzata del nazionalismo, l’apertura al turbocapitalismo. Ma del presente quasi non si parla, né di Trump, né di populismo, mentre Putin è nominato solo di sfuggita, così come il riarmo nucleare contro cui Gorbachev lancia un fermo ma pacato monito.

OGNI SPETTATORE è libero di trarre le sue considerazioni sulla base di un sogno di unità, pace e democrazia che era proprio lì, a portata di mano, e che oggi rischia di diventare un miraggio, un’altra Camelot perduta. Neppure l’amata Raissa, che a differenza delle first-lady di tutti gli altri leader nazionali lo ha accompagnato in ogni momento della sua vita pubblica e privata, c’è più per dargli conforto. Herzog tratteggia il ritratto-testamento di un uomo e di un politico che, inseguendo un ideale di social-democrazia ha cambiato le sorti del mondo. Il suo sogno, però, si è realizzato solo a metà. Gorbachev, stoikiy muzhik, appare come una figura tragica che vive in attesa di terminare i suoi giorni. Quell’uomo che per tutti aveva sognato un mondo migliore, oggi è un uomo solo con i suoi rimpianti, che sulla propria tomba vorrebbe l’epitaffio: «We tried». Ci abbiamo provato.