La notizia che il relitto del transatlantico Titanic, affondato nel 1912, rischia di scomparire inghiottito dalle profondità, tanto che i ricercatori sottomarini OceanGate sono scesi a 3.800 metri per documentarne la spettacolare «carcassa», ci invita – quest’estate – a scandagliare i fondali di mari, oceani e laghi in una serie di pagine, alla scoperta dei loro «abitanti». Dalla Gorgone pietrificante del mito alle navi di Caligola e i misteriosi relitti di Mahdia; dalle creature come il Celacanto, il colombre, lo squalo di Groenlandia, i polpi tentacolari, i tonni imprigionati in riti ancestrali ai demoni anfibi delle leggende giapponesi e la «balena-isola» dei racconti medioevali; dalla fantascienza degli abissi alle città sommerse agli infiniti naufragi nelle acque irlandesi e ai fantasmi di annegati che tornano fra noi.

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Oltre l’Oceano, ai confini della Notte»: un altrove difficile da immaginare. Eppure è in questo luogo al limite del pensiero, al limite della paura, che, secondo il poeta Esiodo, vivevano le terribili Gorgoni. Steno, la forte, Euriale, la vasta, Medusa, la sovrana: sorelle spaventose, con le mani di bronzo, le ali d’oro, le chiome serpentinate, e un micidiale scintillio negli occhi.
Nate dall’unione di Forco e Ceti, due divinità marine, e discendenti della stirpe di Ponto, il Mare primordiale, le Gorgoni condividevano la stessa linea genetica di una folta schiera di mostri femminili: sorelle delle Graie, le eterne vecchie, e della terribile Echidna – creatura metà donna, metà serpente –, nonché parenti delle Arpie, dell’Idra, della Chimera, e dell’inesorabile Sfinge.

TANTA E TALE DEFORMITÀ in un unico ramo familiare non deve stupire: la stirpe di Ponto è una stirpe acosmica, il cui stesso progenitore, il Mare originario, rappresenta l’elemento liquido caotico, pieno di possibilità, che ancora ha da essere navigato, e dunque organizzato.
È da questo disordine di acque primordiali che, da secoli, la figura di Medusa riemerge e si rinabissa: femminile perturbante, composito, bestiale eppure irresistibile, il suo è un fascino sconcertante, ipnotico, vertiginoso. Una versione del mito che la riguarda racconta che fosse una fanciulla bellissima, e perciò contesa da molti, compreso il dio del mare, Poseidone dalle azzurre chiome, che, infiammato di desiderio, volle possederla nel sacro recinto del tempio di Atena. La casta dea, inorridita e oltraggiata, decise di punire la fanciulla – e non il dio, naturalmente – trasformando i suoi riccioli fluenti in un nido di serpi, e incantando i suoi occhi, che divennero il luogo dell’incontro impossibile.
Che fosse bella o mostruosa ab origine, quel che è certo è che il destino di Medusa fu tragico: non solo condannata alla solitudine e a una gravidanza difficile a causa del capriccio di un dio egoista, ma anche preda e trofeo del giovane eroe civilizzatore di turno, Perseo, di cui tutti conosciamo l’impresa.
Partito dalla piccola isola di Serifo per dimostrare il proprio valore, e insieme salvare l’onore della madre Danae, il giovane, dopo varie peripezie, era riuscito a raggiungere il remoto nascondiglio delle Gorgoni e, munito di uno scudo riflettente e di un falcetto affilato, aveva tagliato la testa di Medusa, l’aveva riposta nella kíbisis, la sua bisaccia magica, e se n’era ripartito. Presto fatto: il mostro, anzi la mostra, era stata sconfitta, il mondo era un posto migliore, il chaos lasciava posto al kosmos.

LA VERSIONE DEL MITO che la maggior parte di noi ricorda di solito si ferma qui, ed è comprensibile: l’uccisione del mostro rappresenta l’acme dell’azione, la potenza del gesto sfoca e confonde gli altri dettagli. Eppure, durante e dopo l’uccisione di Medusa, accadono diverse cose degne di nota. In particolare una: quando Perseo taglia la testa di Medusa, mentre il sangue schizza copioso, dal collo mozzo del mostro si slancia improvvisamente un’ala: è quella di Pegaso, il cavallo alato che la Gorgone ha concepito con Poseidone e che, proprio mentre muore, partorisce assieme al fratello Crisaore, anch’egli sbalzato fuori da quella decapitazione, da quella decollazione che è un decollo.
Perché, ecco, proprio dalla testa di Medusa la pietrificatrice, proprio dal fondo cupo della sua gravitas, si produce del tutto inattesa una levitas ascensionale, una leggerezza tutta verticale.
Non sarà infatti proprio Pegaso, figlio di Medusa, della orrenda stirpe di Ponto, creatura di volo e di cielo par excellence? E non sarà proprio Pegaso a far sgorgare con un calcio, sulle rocce del monte Elicona, la sorgente Ippocrene, sacra ad Apollo e alle Muse, che prenderanno l’abitudine di bagnarsi nelle sue acque prima di cominciare a cantare? La stessa fonte che sarà cara ai poeti, che abbeverandosi ad essa riceveranno l’ispirazione?
Difficile non pensare che tanta e tale potenza creativa sgorghi fuori dalla testa di Medusa. Difficile non credere che il canto delle Muse, che è il canto cosmico per antonomasia, abbia in effetti bisogno di bagnarsi nella falda acquifera dell’acosmico, per poi salire verso l’alto.

DA DOVE VIENE, dunque, la poesia? Dal cielo puro e fermo delle vette apollinee? O dalla gola recisa di una testa sempreviva, dal suo abisso insondabile, dal pozzo artesiano del suo corpo? Sono domande a cui è impossibile rispondere. Ma che è giusto continuare a porsi.
Tiziana Cera Rosco, poeta e performer italiana contemporanea, non ha paura di interrogarsi e interrogarci a riguardo, e lo fa proprio a partire da un poemetto dal titolo Medusa. O dell’Abuso, in parte edito sulla rivista online Pangea, a cura di Davide Brullo. Cera Rosco, autrice della recente silloge Corpo finale (LietoColle, Pordenonelegge, 2019, euro 12,35), riscrive il mito dal punto di vista della Gorgone, colta nell’atto di raccontare la sua storia a Perseo, in una sorta di monologo-confessione che precede il noto epilogo.

«VEDI, PERSEO, tu non capisci/ le varie forme dei viventi e delle interiorità», recita il primo verso in cui il mostro chiama in causa direttamente il giovane antagonista, l’eroe civilizzatore che non comprende, non sa, non vede oltre la sterile evidenza della sua impresa. «Forse, Perseo, ti hanno detto che esistevo prima di così come mi vedi ora/ Che tra le sorelle ero indiscutibilmente la più bella/ La più passibile ad essere guardata/ Forte di una virtù mia, tutta mia/ Una virtù che cresceva con me, si emancipava negli anni/ Non una cosa che sta lì come una statua»: Medusa, nelle parole di Cera Rosco, sembra voler prendere le distanze da tutto ciò che è fermo, immobile, pietrificato e pietrificante. La sua esistenza è stata movimento, crescita, emancipazione, niente a che vedere col simulacro senza vita che ora è condannata a generare, e con cui ha finito per coincidere.

«IO VENGO DAL MARE, dai miei genitori pieni di fondi/ Sempre più lontani eppure giovanissimi anche loro/ In una cristallina misura di età eterna/ Solo io invecchiavo,/ Essere/ Umana/ Perché essere umani, Perseo, è un destino»: Medusa rivendica le ragioni della propria umanità, unica mortale in una stirpe di immortali, unica capace di «sentire il tempo», unica «vulnerabile» tra sorelle dotate di un «talento non nato e mai moribile».
«Tu credi che mia madre e mio padre immaginassero questo per me?», domanda poi il mostro all’eroe, e lo incalza: «Credi che immaginassero che un dio mi considerasse un vuoto a perdere/ Un principio di attrazione che deriva dal fatto/ Che può deturpare qualcosa senza darsi pena/ Solo perché per sua natura quella cosa sta già morendo?»: e qui la poesia cresce in dolore e pietà. E parla di noi, si rivolge a noi, che a Perseo e Poseidone troppo spesso assomigliamo, in atti di offesa che giustifichiamo come «civilizzatori», o non giustifichiamo affatto: «Essere umani è un destino Perseo ricordalo/ L’umanità lo è/ E Poseidone questo cercava/ Qualcosa di feribile perché già slabbrato nella sua promessa sulla vita/ Come potesse la sua lacerazione in me/ Essere un fatto meno grave/ Un fatto che sarebbe rimasto nel suo silenzio di perdita/ Come un sordo profondo recesso nei fondali/ Un fatto che sarebbe stato dimenticato appena svolto.». Il poema di Cera Rosco non dà risposte, ma ci interroga senza sconti. Chi è il mostro? Chi decide cosa è feribile, e cosa va protetto? Cosa sappiamo dell’esistenza di una creatura altra, che vive una vita che non conosciamo? Cosa fa di quella creatura una preda? Perché pensiamo di poterne disporre? Medusa pietrifica davvero, o è piuttosto il fantasma di un’angoscia?
L’angoscia di un incontro profondo con un’altra – una radicalmente altra: una donna? Le domande sono molte, e difficili. Una cosa, però, è certa: la poesia non sta dalla parte dell’eroe civilizzatore. Quella semmai è la Storia. Ed è vero che «Perseo non capisce». Come spesso capita a noi, che ancora dividiamo abissi e luce. E pensiamo quest’ultima come il risultato di armonie superne, e giochi alari, ignorando da dove l’ala prenda slancio – da quale fondo segreto, per sempre conservato nelle piume.