Le  acque del Mediterraneo orientale stanno per trasformarsi nel teatro della nuova guerra americana in Medio Oriente, la seconda di Barack Obama, il presidente che quattro anni fa al Cairo aveva promesso nuove relazioni tra Washington e il mondo arabo-islamico. «Sarà un attacco limitato» contro la Siria, spiegano la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. «Non andiamo verso un nuovo Iraq» aggiungono.

Ma a Washington sanno che i «due-tre giorni» di bombardamenti annunciati rischiano di aprire le porte dell’inferno, di un conflitto regionale devastante. Quando la decisione sarà presa, tutto avverrà nel giro di due -tre giorni, forse meno. La partenza da Damasco degli esperti Onu che hanno indagato sul presunto attacco chimico a Ghouta da parte dell’Esercito governativo, ha fatto scattare il conto alla rovescia. «Ci attendiamo i raid americani in qualsiasi momento», diceva ieri prima del discorso di Obama una fonte dei servizi siriani.
Nelle ultime ore la nave anfibia «San Antonio», che può trasportare fino a 800 marines, mezzi da sbarco ed elicotteri – si è unita alla flotta di cinque cacciatorpediniere Usa armati di missili Tomahawk e quattro sottomarini nucleari già presenti nel Mediterraneo. I «protagonisti» dell’attacco alla Siria saranno proprio i Tomahawk, con un raggio di azione di 1.600 km e difficili da intercettare. Secondo il New York Times saranno indirizzati contro una cinquantina di obiettivi: centri di comando, basi aeree, siti missilistici, i ministeri della difesa e dell’interno, la sede dei servizi segreti, le basi della Guardia Repubblicana e della Quarta Divisione Corazzata dell’Esercito sul monte Qasioun. E con ogni probabilità contro tutti gli aeroporti, incluso quello civile di Damasco, per privare le Forze Armate agli ordini di Bashar Assad della copertura aerea, che sino a oggi ha garantito la superiorità militare dei governativi. Nella regione ci sono anche due portaerei, la Uss Harry Truman, e la Uss Nimitz, e squadriglie di caccia F-16 dispiegate nelle basi di Incirlik in Turchia e in Giordania. In campo ci sono anche i francesi che dispongono di missili, gli Scalp, in grado di raggiungere obiettivi fino a 500 km e che possono essere lanciati da caccia Mirage e Rafale. Aerei che decolleranno dalla base francese negli Emirati arabi uniti e dalla portaerei Charles de Gaulle.
«L’Esercito siriano è mobilitato…ha il dito sul grilletto…è pronto ad affrontare tutte le sfide e tutti gli scenari», ha detto perentorio il primo ministro siriano Wael al-Halqi davanti alle telecamere della tv di stato. La Siria potenzialmente può fare male ad alcuni dei suoi nemici nella regione, alleati degli Stati Uniti. Non può però permettersi di attaccarli per non coinvolgere in una guerra avversari troppo potenti, come Turchia e Israele, contro i quali non può vincere. Le difese siriane peraltro non possono minacciare le navi da guerra americane in grado di lanciare i Tomahawk tenendosi a centinaia di km di distanza alla costa e, quindi, dai missili supersonici anti-nave «Yakhont» che sono una delle armi migliori in possesso di Damasco.
Il fine dell’attacco franco-americano è quello di azzerare l’aviazione siriana e i centri di comando e di collegamento, per offrire ai ribelli che fanno capo alla Coalizione Nazionale (Cn) dell’opposizione e alle migliaia di jihadisti giunti da ogni parte del mondo per combattere l’alawita-sciita Assad, l’occasione irripetibile di dare una svolta a loro favore al conflitto che combattono contro l’Esercito siriano. I ribelli siriani perciò si preparano a entrare in azione, in modo massiccio. «La speranza è di avvantaggiarsi dall’indebolimento delle posizioni nemiche. Abbiamo ordinato alle nostre unità di prepararesi in ogni provincia ma non siamo in collegamento operativo con i comandi militari statunitensi e francesi», ha detto alla Reuters, Qassim Saadeddin, un portavoce del Consiglio Militare Supremo, il braccio armato della Cn.
Bashar Assad però non è isolato nella regione. Certo, i petromonarchi del Golfo, forti delle loro immense fortune, finanziano e armano i ribelli e premono per un attacco devastante contro la Siria. Però Qatar e Arabia Saudita – principali sponsor dell’opposizione – sono ai ferri corti. Egitto, Algeria, Libano, Iraq e Tunisia sono contrarie all’attacco franco-americano, mentre Baghdad e Beirut non condannano Damasco per il presunto attacco con il gas a Ghouta. «Non sappiamo chi abbia usato le armi chimiche», ha spiegato il ministro degli esteri egiziano, Nabil Famhi, a sottolineare che il Cairo ora punta sul dialogo con Damasco. Un cambio di rotta drammatico rispetto al pieno sostegno alla ribellione anti-Assad manifestato meno di due mesi fa dal presidente islamista Mohammed Morsi deposto dal colpo di stato militare.
Anche l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, che pure da venti anni ha rapporti difficili con Damasco, ha descritto come un «atto crmininale» il piano di attacco alla Siria.