Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità stiamo assistendo a una «moderna epidemia di malattie non-trasmissibili». Si riferisce a quelle malattie correlate allo stile di vita occidentale e che circa un secolo fa, quando si mangiavano cibi non raffinati ed in gran parte di origine vegetale, non esistevano. Stiamo parlando delle cosiddette patologie del benessere, in particolare quelle cardiovascolari, il diabete, l’obesità, il cancro e le dislipidemie, alla cui incidenza è ormai condiviso siano associate le diete altamente caloriche, ricche di proteine e grassi di origine animale, carboidrati raffinati e povere di frutta e verdura (le cosiddette «Western diets»). Queste malattie sono responsabili di circa i 2/3 delle morti nei paesi occidentali e stanno causando l’invalidità di persone sempre più giovani.
È sempre più inequivocabilmente provato dalla scienza che invece le «Plant -based diet», ovvero quelle che includono l’assunzione di cereali integrali, verdura e cibi vegetali, escludono la carne e il pesce e limitano, o escludano completamente, anche latticini e uova, sono efficaci non solo nella prevenzione ma anche nella cura delle suddette malattie.

IL PRIMO A INTUIRE LA CONNESSIONE tra alimentazione e malattie del ricambio, come il diabete e l’obesità, fu nel 1939 il medico nutrizionista italiano Lorenzo Piroddi, considerato il padre della dieta mediterranea. Per curare i suoi pazienti, Piroddi elaborò una dieta che limitava il consumo di grassi animali privilegiando quelli vegetali. Ma il primo studioso che portò il concetto di dieta mediterranea all’attenzione della scienza fu l’americano Ancel Keys: negli anni ’40 si trovava a Creta, al seguito delle truppe alleate, e notò che l’incidenza di malattie cardiovascolari, in quell’isola, era notevolmente inferiore a quella degli Stati Uniti. Nel 1944, sbarcato a Paestum al seguito della Quinta Armata, rimase colpito dalla longevità dei contadini del Cilento la cui dieta, per povertà, frugalità e parsimonia, era povera di grassi di origine animale (a differenza dei ricchi, mangiavano carne raramente), ma costituita prevalentemente di pane e pasta consumati con legumi e la frutta e verdura dei loro orti: olio extra vergine di oliva e, quando c’erano, formaggio e frutta secca.
Queste osservazioni condussero Keys nel 1957 ad avviare il più grande studio epidemiologico mai fatto nel campo della nutrizione: il Seven Countries Study, che coinvolse ben sette paesi: Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, Olanda, Stati Uniti e Jugoslavia. Vennero comparati i regimi alimentari di circa 12 mila persone: gli esiti di questa imponente ricerca portarono Keys a battezzare la Dieta Mediterranea quale «miglior stile di vita per vivere meglio e più a lungo». Keys si riferiva a un’alimentazione basata soprattutto sull’assunzione di grandi quantità di frutta e verdura, cereali integrali, noci, legumi e semi e olio extravergine d’oliva come fonte principale di grassi, Ammetteva l’assunzione di quantità medio-basse di pesce, pollame e prodotti caseari freschi, mentre il consumo di carni rosse era molto basso. Si trattava quindi di una dieta «Plant based» per circa l’80% dei cibi assunti.

SPECIFICI STUDI SULLA SALUTE dei vegetariani invece sono iniziati negli anni Settanta ed hanno arruolato a oggi oltre 200 mila soggetti. Si tratta di studi che analizzano la prevalenza di una data malattia in un gruppo di vegetariani, latto-ovo vegetariani o vegani, e anche l’incidenza, ovvero il tasso di comparsa nel tempo. Particolarmente significativi gli studi condotti sugli Avventisti californiani, una comunità protestante che promuove la dieta vegetariana per motivi religiosi, e sui vegetariani britannici. I risultati sono stati pubblicati su riviste scientifiche internazionali di alto livello e mostrano che i vegetariani, rispetto ai non vegetariani, stanno decisamente meglio: rischio ridotto di morte per cardiopatia ischemica, livelli inferiori di colesterolo e di pressione arteriosa, e anche ridotti tassi di ipertensione e di diabete mellito di tipo 2.

I VEGETARIANI, INOLTRE, e ancor più i vegani, tendono ad avere un ridotto Bmi, il parametro indicatore di peso normale, sovrappeso, obesità, e una minore incidenza, in alcuni casi fino all’80%, di tutti i tipi di cancro. Negli ultimi 20 anni poi sono stati svolti tutta una serie di studi, condotti sia sui vegetariani che sugli onnivori, che hanno dimostrato benefici importanti e quantificabili da parte dei differenti componenti delle diete vegetariane, in particolare grassi mono e polinsaturi, antiossidanti e fibre: migliorano nel sangue il livello degli zuccheri e di tutti i tipi di colesterolo. Traggono vantaggio in maniera particolare gli affetti da diabete mellito: i pazienti che hanno seguito una dieta vegetale hanno potuto sperimentare una riduzione del fabbisogno di farmaci, oltre che un calo di peso corporeo. Per quanto riguarda il diabete mellito, il tema delle diete «Plant-based» da utilizzare come terapia è di attualità. Sono quelle che più si avvicinano alla dieta ottimale suggerita dalle linee guida di tutte le società di Diabetologia del mondo. Ad esempio la Canadian Diabetes Association nelle sue linee guida del 2013 le ha introdotte come Terapia nutrizionale medica dei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2. È d’accordo anche la medicina italiana. Nello stesso periodo l’Asl di Milano ha incluso, nelle direttive indirizzate ai propri medici, l’uso della dieta vegana come primo approccio alla terapia per i pazienti affetti da questo tipo di diabete.

Consulenti Dott.ssa Daniela La Commare, medico interno, e Samanta Mazzocchi, gastroenterologa, con Master di I livello in alimentazione e dietetica vegetariana