In attesa che nella scuola italiana la meditazione diventi materia consueta – basterebbe una lezione a settimana, dalla prima elementare al liceo – una delle azioni che gli italiani potrebbero introdurre nella propria vita ordinaria è il cammino in foresta. Negli ultimi anni la natura è ritornata a parlare agli umani. Precipitate le ideologie sono rimaste la religiosità, non di rado sostituita dalla più radicante spiritualità, e la natura. Finalmente abbiamo interiorizzato il mantra che gli ecosofi hanno ripetuto per decenni: la natura non è soltanto uno sfondo teatrale che ci accompagna, il nostro stesso corpo, come diceva Raimond Panikkar è il proseguimento della nostra pelle.

Dopo mesi di pandemia, di reclusione e timore del prossimo, di crescente preoccupazione nei riguardi del futuro, ricominciamo a uscire, a vederci, a mischiarci, ad architettare il futuro, sebbene la malattia non sia alle spalle. Proprio in questi giorni ho accompagnato il primo gruppo di camminatori fra i boschi del Gran Paradiso, per respirare, ascoltare e meditare. L’Italia è ricoperta per un terzo di boschi e aree boscate, ospita parchi nazionali, regionali, provinciali o naturali, oasi Lipu e WWF, beni sotto gestione FAI e riserve di proprietà privata. Come poter far fruttare i mesi che abbiamo di fronte senza limitarci a fare i turisti della domenica che migrano dalle città ai monti con le nostre rombanti automobili? Una possibilità ci viene dall’antica arte della meditazione.

Che si adottino tecniche, pratiche, consuetudini della contemplazione cristiana, o tecniche, pratiche e consuetudini delle diverse forme di spiritualità orientale è questione metodologica, che dipende da occasione, gusto e interessi. Quel terzo del nostro paese fatto d’alberi, di ruscelli, di montagne e forre, di fughe di animali selvatici, quel continente boscoso di cui ho scritto tanto, ci attende per accoglierci come una madre premurosa e rassicurante. Personalmente ho scelto la via dei patriarchi che va sotto il nome di buddismo zen, ma qualsiasi sentiero, qualsiasi tracciato, qualsiasi camminare, è cosa buona e giusta.

Ho provato così a tracciare alcune esperienze che mettono in relazione l’albero con la spiritualità buddista. In molti ricordano il ficus religiosa della Bodhi (del risveglio) all’ombra del quale il Budda storico, Siddharta Gautama (566-486), a trentacinque anni, raggiunse l’illuminazione. Oggi, in quel bosco dove il Budda Sakyamuni meditava è stato costruito un complesso religioso noto al mondo come Bodh Gaya, vi sorgono templi, statue e musei e vi cresce l’ennesimo sostituto dell’albero originale. La natura, i boschi e l’albero sono parte integrante, fin dalle origini, della religiosità buddista. Se però guardiamo al confronto figurativo fra l’immagine di un monaco seduto in meditazione silenziosa e la base di un albero, ci si può soffermare su alcuni maestri della tradizione ch’an, termine cinese che traduce il sanscrito dhyana (meditazione) poi trasportato in Giappone nell’ideogramma zen.

Dall’India giunge in Cina, nel 527 d. C. – un millennio dopo l’illuminazione del Budda – Bodhidharma (483-530/540), colui che trasmette ufficialmente il buddismo, non come religione da venerare ma come scelta personale che conduce un uomo alla perdita di ogni cosa e alla ricerca del risveglio; per maturare questa condizione si pratica la “meditazione silenziosa”, come lo stesso Bodhidharma pare abbia praticato per nove anni in una grotta sul monte Song, e si sottopone ad una rigida attività fisica; infatti a Bodhidharma viene riconosciuta la fondazione del Monastero Shaolin. Erede di Bodhidharma è Shishuang Qingzhu (807-888), ordinato monaco a ventitré anni e cuoco, o tenzo come dicono i giapponesi, nel monastero in cui risiede; si tratta del monaco addetto al rifornimento e alla preparazione del cibo per tutti gli ospiti del monastero, quindi un ruolo essenziale, che in seguito sarà rivalutato da uno degli scritti più celebri del grande Eihei Dōgen (1200-1253), uno dei maestri zen più importanti della storia giapponese, in un testo noto come Istruzioni a un cuoco zen. Qingzhu si muove alla volta del monte Shishuang dove perfeziona una modalità di meditazione seduta, per lunghe ore, che ricorda la posizione del tronco di un albero; per questa ragione i monaci si chiamavano giocosamente Assemblea o Sala degli Alberi Morti.

Un altro maestro, Caoshan Benji (840-901), sostiene che dentro un albero morto canti il drago: colui che riesce a sentire il drago che canta nel tronco di un albero morto conosce la via, ovvero raggiunge la consapevolezza. Caoshan fonda un tempio sul monte da cui prende il nome e cura uno dei primissimi commentari alle poesie del misterioso poeta mistico Hanshan, Montagna Fredda, d’epoca Tang, le cui poesie incise su roccia e su corteccia sono state salvate dall’oblio subito dopo la sua morte.

Un noto maestro che medita imitando la staticità del ceppo di un albero è l’abate Kumu Facheng (1071-1128). Il termine kumu – letteralmente “albero secco”, “albero morto” – indica il ceppo che resta dopo che un albero viene tagliato e abbattuto; per Facheng lo zazen seduto e silenzioso è il cuore della pratica buddista. Sul monte dove esercita, Xiang Shan, lo raggiunge appena diciottenne Hongzhi Zhengjue (1090/1091-1157), che in seguito sarà ricordato come il maestro dell’“illuminazione silenziosa” o “illuminazione quieta”, ovvero meditazione seduta, statica, senza ripetizione cantilenata di sutra. Nel 1129 Zhengjue si trasferisce nel tempio del monte Tiantong dove vivrà gli ultimi decenni della propria vita; un suo biografo testimonia che ai monaci suole consigliare di praticare l’immobilità e sedere eretti come alberi secchi. Proprio in questo stesso tempio, circa un secolo più tardi, un giovane monaco giapponese alla ricerca delle radici del vero buddismo viene ad apprendere gli insegnamenti del maestro Tiantong Rujing (1163-1228): questo giovane si chiama Dōgen, riceve il sigillo del Dharma e rimpatriato fonda il Sōtō (oggi la scuola zen più diffusa al mondo), che pone da otto secoli al centro della pratica la meditazione seduta e silenziosa, detta in shikantaza, ovvero “nient’altro che sedere”, concetto attribuito a Rujing.

Una delle figure cardine del ch’an cinese è stata Baizhang Huaihai (720-814), ammoniva di non concettualizzare la propria esperienza: «Uno deve soltanto praticare nel presente senza visioni di Budda, del nirvana o altro». Medita, pratica e non pensare, non spiegare la tua esperienza in termini assolutistici o relativistici, naturalistici o esistenziali. Tutto semplice ed essenziale? Sedersi, adottare una corretta postura, svuotare la mente e vivere il presente, proprio come sa fare un albero, non è affatto elementare; sederci a gambe incrociate, in una pineta, a duemila metri, o fra i castagni grotteschi e spogli di un castagneto dimenticato, reclama il nostro vivere silenti, ma tutti sanno che basta meno di un minuto per allenare una popolazione di voci, una foresta intricatissima di disturbi, di proiezioni, di baccano così intenso da rendere il raccoglimento faticoso. Ma non bisogna farsi vincere, la tenacia con cui ci si immerge in se stessi ci educa a lasciare andare, a dimenticare tutto questo teatro che ci popola, al quale vogliamo credere ma che è falso: vive tutto soltanto nella nostra testa. Si può diventare spettatori disinteressati di quel che la mente ci proietta. La pratica quotidiana, continuativa, aiuta a perfezionarsi. D’altronde, come sosteneva lo storico delle piante e maestro zen Jacques Brosse, lo zen è un invito all’alba del mondo.