C’è la storia, da far invidia a Cronenberg, della santa che a Montefalco, il 17 agosto 1308, morì suggerendo alla comunità monastica di aver avvertito, costante, la presenza di Cristo nel cuore: così, dopo che la donna ebbe esalato l’ultimo respiro, le consorelle decisero di verificare se davvero il Salvatore si fosse insediato fra le viscere della badessa, negli ultimi giorni della sua vita, e aprendone il petto, senza bisogno di un chirurgo, si stupirono di fronte alla conferma offerta, fra i ventricoli immobili, da una piccola croce di carne e, altrettanto minuscoli, dagli altri simboli della Passione. C’è poi la vicenda di Henry de Sprowston, guardiaboschi sulle colline pacifiche attorno a Norwich, che nel marzo 1144 inciampò sulle spoglie senza vita di un ragazzo e che conducendo un’indagine – quasi un noir di James Ellroy – arrivò a scoprire come il cadavere appartenesse a un certo William, apprendista conciatore: sarebbe bastato quest’indizio, passati alcuni anni, per spingere Thomas di Monmouth – un monaco della cattedrale, in anticipo sulla curiosità indiscreta di Guglielmo da Baskerville – a continuare l’investigazione, trovando le tracce delle unghie del giovane ancora incise sul pavimento della cucina di una fra le famiglie ebree più ricche in città, prova a suo dire lampante del fatto che William fosse stato crocifisso e dissanguato durante un casalingo rituale proprio fra i fuochi di quell’ambiente di servizio. Non manca nemmeno il destino di un re infelice dal nome stridente, ovvero Carlo VI di Valois detto il Beneamato, che perse il senno, a cavallo di due secoli, dopo una corsa in campagna in groppa al suo destriero, interrotta all’improvviso da un contrattempo inatteso: quando infatti il bucefalo fu ostacolato da un mendicante importuno – o fu forse uno scudiero che lasciò cadere la lancia, provocando un frastuono imprevisto? – il sovrano perse il controllo e in un raptus omicida, cruento quanto un film in costume di Chéreau, sterminò a colpi di spada cinque dei suoi amici fidati, cadendo poi in un coma profondo prima di perdersi al risveglio fra le visioni di un delirio inesauribile.
Sono solo alcuni dei racconti intessuti in un volume, uscito nel 2018 per Profile Books e oggi tradotto da Einaudi: Corpi medievali La vita, la morte e l’arte («La Biblioteca», trad. Luca Bianco, pp. 367, 88 immagini, euro 34,00). L’autore, Jack Hartnell, giovane Lecturer in Storia dell’Arte all’University of East Anglia, ha deciso di interrogarsi sulla percezione del corpo, sulle funzioni a esso collegate in un lasso di tempo che coincide con una visione pre-umanistica del mondo. Hartnell fa però riferimento a una cronologia di matrice settentrionale, che spinge i confini del Medioevo fino all’inizio del 1500; periodizzazione tradizionalmente sagomata sulle vicende storiche e culturali di paesi fra cui l’Inghilterra o la Francia, in un’inevitabile dissincronia con quella di solito applicata al panorama italiano, come ben sanno i comparatisti sparsi sul continente alle prese con la difficile determina di un calendario concordato per le vicende e i fenomeni transnazionali fra V e XVII secolo. Con coerenza, la casistica messa a fuoco dalla ricerca ruota attorno a un medesimo asse geografico, sbilanciato appunto sui confini nordici dell’Europa: ma se un simile, preponderante interesse non basta da solo a garantire unità allo studio, è nella sua ben architettata struttura che va rintracciato il cemento concettuale del lungo saggio.
La ricchezza delle fonti, la varietà delle notazioni risponde infatti alle curiosità enciclopediche dei visual culture studies; tuttavia Hartnell, dividendo l’esame in numerosi capitoli, dedicati di volta in volta a una diversa porzione anatomica, ricalca il modello di una seduta settoria (avocando a sé il ruolo privilegiato dell’ostensor) e sceglie di ripetere, per ciascuna sezione, un medesimo schema. Partendo cioè da un case study puntuale, da identificarsi perlopiù in un’evidenza visiva di qualche risonanza (alludiamo ad esempio agli arazzi della Dame à la Licorne del Musée de Cluny o alla Madonna-scrigno del Metropolitan Museum), Hartnell passa ad affrontare il valore metaforico legato a ogni organo o tessuto preso in considerazione, dalla mano allo stomaco, dalla pelle al piede, di solito muovendo dall’ambito sanitario-chirurgico – uno dei fuochi delle indagini di Hartnell – alla sfera religiosa, letteraria o artistica. La dissezione si trasforma così, paragrafo dopo paragrafo, in una specie di blason anatomique, genere d’elogio in versi diffusosi in Europa a partire dal Cinquecento sulle ceneri della tradizione poetica greco-romana.
Un simile andamento – siglato perfino in conclusione da un ritorno circolare verso l’incipit del capitolo d’avvio – facilita il compito del lettore, che potrebbe al contrario trovarsi disorientato di fronte a un lavoro inteso per allargare i confini dell’analisi, oltre i limiti di una più rigida sequenza dei fatti e al di là dei confini di una cartografia ‘occidentale’: in questo senso la parte relativa alla storia della medicina risulta la più convincente (e non solo perché, come abbiamo detto, proprio in quel campo lo studioso gioca in casa).
La tradizione attraverso la quale il pensiero classico, da Ippocrate a Galeno, si saldò alle speculazioni d’epoca medievale sulla cura del corpo, prevede infatti un lungo giro ‘mediterraneo’, che unisce Costantinopoli, Alessandria, Damasco e le coste spagnole. Per questo coll’affrontare temi siffatti le esplorazioni di Hartnell, sempre puntuali nel citare documenti e evidenze, guadagnano in compattezza, consentendo accoppiamenti virtuosi e prossimità significative in un campionario che meraviglia innanzitutto per la vastità d’approccio. È al proposito molto persuasiva la disamina consacrata al muscolo cardiaco, che dopo aver percorso le visualizzazioni di un organo tanto centrale, da Aristotele a Ibn Sina, salda pensieri siffatti al percorso, fra Terra Santa e Europa, seguito dalle molte reliquie riconosciute come la lancia di Longino, servita per trafiggere il costato di Cristo nella sua lunga agonia sulla croce. Efficace si rivela infatti la chiusa sulla piccola xilografia contenuta in un taccuino composto dal medico tedesco Harmann Schedel, residente nel XV secolo a Norimberga, città che conservava uno di questi cimeli sacri e riveriti: il foglio, colorato di un rosso intenso e raffigurante lo schema iconico di un cuore, dovette essere trafitto col ricorso a quella lama tagliente, per rispecchiare la devozione del lettore nei veri dolori del Figlio di Dio.
Risulta anche incisivo che l’autore – pur dedicando molto spazio alla sofferenza e alla malattia, sulla scia di scritti come quelli di Marla Carlson – si concentri su corpi ‘quotidiani’, nel perseguire la strada aperta da compendi seminali ben esemplati dalla raccolta collettanea uscita nel 1994 per cura di Sarah Kay e Miri Rubin. Hartnell offre così l’opportunità di misurare sul metro di un canone condiviso, esperito attraverso una concordanza di idee e pregiudizi, la tendenza recente che ha spinto indagini vieppiù numerose a scandagliare gli aspetti di una fisicità deviante, guardando ai monstra o alle deformità, alle caricature e agli incubi fobici. Spiace semmai che, in un tanto ampio ventaglio di osservazioni, il libro manchi l’appuntamento con l’idea sfuggente del nudo (o meglio della nudità). Laddove contributi celebri fra cui le tesi discordanti di Norbert Elias e Hans Peter Duerr, i saggi di Kenneth Clark o Nikolaus Himmelmann hanno radicato le proprie riflessioni anche in un arco cronologico coincidente con quello preso a soggetto da Hartnell, si sarebbe desiderato che quest’ultimo affrontasse di petto magari in poche pagine una questione a tal punto centrale per il discorso sulla corporeità, ricucendo le disiecta membra della sua lezione anatomica attorno ai temi elusivi della bellezza e della vergogna, della visibilità e della censura, argomenti d’altronde di nuovo in auge nell’attuale clima di neo-modernità trionfante.