Pare che ai tempi di Ebola alcuni abitanti della Guinea Forestale abbiano preso a sassate i mezzi della Croce Rossa e di Medici senza frontiere. Per la stampa internazionale non c’erano dubbi: l’avversione degli indigeni nei confronti di chi li stava soccorrendo poteva evidenziare solo un grave ritardo di civiltà. Naturalmente lo dicevano gli stessi giornali che oggi intimano a Medici senza frontiere di scegliere «tra l’Italia e gli scafisti», identificando la disobbedienza al nuovo codice delle Ong con l’intesa criminale.

All’incirca come in Guinea, dove correva voce che gli aiuti fossero un trucco per diffondere il virus nell’interesse dell’uomo bianco, in Italia aumenta il sospetto non meno leggendario che l’emergenza migratoria venga pianificata alle cene di lavoro tra volontari e scafisti.

Nel giugno del 2014, il presidente Alpha Condé non tardò a sfruttare la diceria locale sostenendo che in effetti avrebbe preferito sapere qualcosa di più sul modo in cui venivano utilizzate le donazioni, soprattutto dopo che Medici senza frontiere lo aveva smentito dichiarando che la situazione del virus si poteva definire totalmente fuori controllo. Dal canto loro, gli abitanti dei villaggi avevano validissime ragioni sia per diffidare dell’uomo bianco, che in barba al code miner del paese continuava a estrarre il loro ferro senza assumere la forza lavoro indigena, sia per non dimenticare il contributo decisivo che i medici della metropoli avevano tradizionalmente assicurato al dispiegamento della violenza coloniale. In altri termini, per quanto in rapporto ai soccorsi le loro reazioni risultassero oggettivamente anacronistiche («storie di altri tempi», le definì il Paris Match), le si poteva ritenere in parte plausibili.

Posto che anche oggi Medici senza frontiere rappresenta un elemento di disturbo, perché crea un’interferenza nel programma di risoluzione dell’emergenza umanitaria nella «guerra ai trafficanti» e nei centri di detenzione africani, esistono delle motivazioni altrettanto anacronistiche ma ragionevoli nell’ondata di risentimento che il governo e le prime pagine dei quotidiani si prodigano a sfruttare? E se esistono, quale sarebbe la violenza morale alla quale reagiscono accusando qualunque istanza critica di buonismo, astrattezza o privilegio?

Qualche decennio fa Stuart Hall si domandava come fosse possibile che la working class inglese avesse votato per Margaret Thatcher, ma premettendo che avrebbe fatto volentieri a meno del ricorso alla categoria di falsa coscienza: non gli importava comprendere che cosa i lavoratori si fossero illusi di ottenere, con la Thatcher, ma cosa avessero trovato. Forse allora bisognerebbe assumere una prospettiva analoga nel tentativo di comprendere quali siano le ragioni che si rispecchiano negli attacchi a un’organizzazione come Medici senza frontiere che da più di quarant’anni aiuta le popolazioni in pericolo, oltretutto «a casa loro». In altri termini, non si tratta di stabilire quale sia l’inganno che si traduce nell’insofferenza verso i volontari, ma di riconoscere il soggetto che si afferma nell’obbligo di Roma di scegliere «tra l’Italia e gli scafisti», il realismo e l’alternativa criminale, l’abbandono e il traffico di vite umane.

Il minimo che si possa supporre è di avere a che fare con un soggetto estenuato dalla sensazione di impotenza, alla quale l’azione del governo procura finalmente una dignità civile e morale, la stessa che le destre meno timide ricavano dagli allarmi contro la sostituzione etnica o lo ius soli, perché anche negare la cittadinanza a qualcuno è meglio di niente. Ma a venire implicitamente negata, in questo modo, è l’agibilità di uno spazio politico preliminare al diritto e alla compatibilità economica che la sinistra avrebbe il compito di rivendicare, non solo in rapporto ai profughi, dei quali anzi si coglie solo in questa prospettiva il «legame organico» con le nuove tipologie di sfruttamento e accumulazione del capitale.

A riprova di quanto i rapporti di produzione debbano periodicamente affidarsi al recupero di elementi arcaici e anacronistici, basterà considerare come una situazione analoga a quella in cui oggi è finita Medici senza frontiere la dovettero affrontare anche i marinai della Nuova Atlantide, che già a partire dal 1626 si erano attrezzati per dissimulare la propria presenza tra il personale di bordo dei mercantili stranieri.

Non per denaro, aveva precisato Francis Bacon, né per qualsiasi altra ricchezza materiale, ma solo per «avere luce sullo sviluppo di ogni parte del mondo». E fu proprio per imporre una nuova disciplina alla circolazione di questa luce, arginando l’instabilità che non cessava di sprigionarsi intorno ai vini di Madera, alle spezie orientali, ai legni brasiliani, alla lana spagnola, alle ceramiche olandesi e alle pietre preziose, che nel 1651 il parlamento inglese si sarebbe risolto a promulgare l’applicazione del Navigation Act.

Fuori di metafora, allora, l’attacco agli occhi indiscreti e al diritto dei soccorritori, dovrebbe richiamare in causa le verità relative all’incidenza che le scelte di politica economica continuano a determinare sui flussi migratori, senza nascondere le contraddizioni che inevitabilmente si producono tra la valorizzazione dei capitali e il deterioramento delle condizioni in cui vivono i protagonisti dell’esodo. Non per ingenerare inutili sensi di colpa, ma perché siano le democrazie a stabilire realmente se intendono modificare il loro rapporto con i predatori della Guinea Forestale, per esempio, o se preferiscono rassegnarsi alla diaspora dei suoi abitanti. Non si tratta di un dovere ma di una scelta di campo, che coincide con il rifiuto a subire le conseguenze degenerative alle quali si espone una comunità disposta ad abbandonare chiunque in mezzo al mare o nel deserto. Un rifiuto che non è motivato dall’aspirazione al dieci in condotta o al paradiso, ma dal proprio interesse, anche nazionale.