Roma ha archiviato il quinquennio di Gianni Alemanno. L’ha fatto con il minimo sforzo, al 45% del suo potenziale elettorale. Con accidia, con indifferenza: senza particolare coinvolgimento, con un inerte ma netto rifiuto. Sdegnosa e quasi sprezzante, con un pronunciamento a bassissimo regime ha emesso la sua silenziosa quanto vistosa sentenza politica. Ancor prima che accogliere il nuovo sindaco, ha abbandonato quello vecchio al suo modesto destino. Tra i pochissimi che sono andati a votare al ballottaggio, le schede raccolte dalla destra sono le stesse del primo turno. Per chi 5 anni fa era entrato in Campidoglio come un conquistatore, tra strombazzi e saluti romani, rappresentano un risultato davvero imbarazzante. Si chiude così, con un’omissione di massa che suona come un rigetto popolare, la lesionata parabola dell’ex ragazzo del Fronte della gioventù.

Alemanno era diventato sindaco di Roma con la spavalderia e la sgarbata pervicacia di chi aveva intuito la tensione restauratrice che s’andava addensando in tutto il paese, e che proprio a Roma toccò il suo acme forse più simbolico. Una tensione che in città sposta con una rapidità sconcertante quelle centrali finanziarie e immobiliari che, ingrate, erano state generosamente coccolate lungo l’intero quindicennio del centrosinistra. Intercettando anche, più con naturalezza che sollievo, la nascente stagione conservatrice avviata in Vaticano da papa Ratzinger.

Ma il neo-sindaco arriva Campidoglio grazie soprattutto alla spinta di un dilagante istinto sociale incollerito che finisce per sovrapporre una pulsione ribellista, a tratti regressiva e perfino paranoica, e una densità critica che si era accumulata per le scelte sempre più anguste dell’amministrazione Veltroni. Processi diversi e distinti, ma che segnalavano entrambi l’esaurimento culturale di una politica esausta, ridotta ormai a manfrina elitaria, a un carosello di stucchevoli rappresentazioni di potere. Per quanto malintesa, la sua elezione raccoglie insomma una speranza popolare.

Alemanno aveva davanti a sé le migliori condizioni per promuovere una stagione politica piena di successi. Non è andata così. La destra romana ha penosamente dimostrato di non essere stata in grado né di governare processi strutturali, né di imprimere prospettive strategiche: il suo modello ha oscillato tra furori perbenisti e intrallazzi clientelari. Sarebbe facile sostenere che un esito del genere fosse prevedibile, oltreché auspicabile, ora che anche nei miseri numeri del ballottaggio si misura tutta l’impopolarità del sindaco sconfitto. Ma si rischierebbe di trascurare il senso politico del malessere sociale che anche le urne restituiscono.

Gli succede Ignazio Marino, un uomo mite e giudizioso, apprezzato e forse premiato proprio per la sua estraneità agli apparati oligarchici del centrosinistra romano. Malgrado l’astensionismo record, ha motivato, aggregato e irrobustito un buon consenso e adesso dovrà attraversare dissesti e macerie, per provare a rilanciare una città sfinita e disincantata. Non sarà facile: e per questo fraternamente gli auguriamo di riuscirci.

Più della metà di Roma non si è voluta insomma esprimere, e tuttavia si ritrova a voltare pagina in un clima scettico e distaccato. C’è da riaccendere quella speranza che la politica tutta, comprese le nuove esperienze che su diversi versanti affiorano, non riesce più a interpretare. E forse si può ripartire da quell’ampia e variegata costellazione che ha ostinatamente contrastato le politiche comunali, transitando da una battaglia all’altra fino a quest’ultimo scorcio elettorale. Movimenti, sindacati, associazioni, cooperative, comitati: il condensato critico che ha guidato le lotte per i diritti, il lavoro, la cultura, la cittadinanza. Realtà ed esperienze diventate protagoniste di una generalizzata guerriglia negli ambiti più critici, nelle contraddizioni più stridenti della città. Ritagliandosi di fatto quel ruolo di opposizione ad Alemanno che forze politiche pigre e consociative hanno stentato a svolgere.

Per prendersi cura della nostra precaria città c’è ora bisogno di un grande lavoro di riassetto e manutenzione: certo strutturale, ma anche sentimentale. Un lavoro che coinvolga e renda partecipi le mille soggettività che l’hanno animata in questi anni infelici. Sebbene costrette alla marginalità, negli spazi occupati, nei servizi autogestiti, nelle fabbriche dismesse, nei centri anti-violenza, nei cinema e nei teatri abbandonati, negli ambulatori popolari, nelle terre incolte sono cresciute a Roma esperienze sociali e culturali che esprimono un’intensa e sorprendente progettualità. Rappresentano la città contemporanea. Sono il patrimonio più prezioso di cui oggi si possa disporre per tornare a respirare e sorridere. Non disperdiamolo.