Rinnovamento nella continuità o vera rottura? Domanda attinente a gloriose tradizioni, e tuttavia riferibile – si parla licet – anche all’arrivo in Italia di Netflix. Vale a dire la società nordamericana fondata e diretta da Reed Hastings (Ceo e presidente) nata nel 1997 per portare massicciamente la produzione audiovisiva nell’universo della rete. In estrema sintesi, la televisione in Internet.

Ecco, insomma, reificarsi la tanto evocata crossmedialità. Da non intendere come la cannibalesca incorporazione dei media precedenti. Se così fosse, non avremmo da tempo né la musica, né le orchestre, né il teatro, né l’editoria, né la radio. E ora sparirebbero sia il cinema sia un bel pezzo di televisione. No. Si determinano una «mediamorfosi», una transumanza, durante le quali si innesta una tensione tra il vecchio e il nuovo, il prima e il dopo. Una lotta per l’egemonia, perché ogni medium comporta modelli produttivi e stili di consumo differenti.

Ecco, lo sbarco di Netflix rappresenta anche simbolicamente il conflitto tra l’epoca dello schermo generalista con palinsesto e forme di fruizione rigidi, e l’era digitale in cui la domanda si personalizza e muta il rapporto tra emittente e ricevente. Ci si abbona con cifre abbordabili – Sky glissa, ma qualche colpo lo riceverà dato il divario enorme tra i costi di ingresso – e si accede a una biblioteca fatta soprattutto di cinema-cinema e di film seriali. Questi ultimi apripista di una aggiornata sintassi della fiction: basata sulla qualità tecnica, sul casting, su linguaggi e pubblici di riferimento evolutivi. Certamente fondata su gusti e suggestioni di maggior presa sulle generazioni giovani o meno invecchiate con lo zapping ripetitivo.

Siamo di fronte ad un colosso, con un territorio di abbonati maggiore degli abitanti dell’Italia, quasi come la Germania: la Netflix deflagrata grazie al brand di House of cards e ai previsti Marco Polo e Suburra.

Sarà una rivoluzione? Per il momento c’è da dubitarne. Intanto, la diffusione capillare richiede una copertura con la banda larga che oggi non c’è. L’Italia è assai indietro e chissà quando il piano annunciato dal governo si realizzerà concretamente.

Per guardare la televisione in Internet con decente risoluzione ci vuole altro. Ancora limitata è la presenza nelle abitazioni degli apparecchi già collegabili alla rete. C’è da giurare che aumenteranno, ma non subito.

Inoltre, è verosimile che la cosiddetta domestication (la familiarizzazione delle tecnologie negli ambienti della vita quotidiana) riserverà qualche sorpresa. Il predominio dell’eterno «duopolio» Rai-Mediaset ha costruito una «dipendenza» fortissima, dura a morire. Che ne sarebbe stato della felice ascesa di Sky senza le trasmissioni sportive, a cominciare dal calcio? Comunque, il tempo dirà. Però, senza mettere mano al sistema e a ai suoi vincoli ereditati dall’età berlusconiana, il nuovo per avanzare deve superare ostacoli e trabocchetti infiniti.

Serve una normativa moderna. E abbiamo l’esatto contrario. A tale riguardo, è indispensabile chiedere all’amico americano se rispetterà la normativa sugli obblighi di produzione di film (e audiovisivi) italiani ed europei, sulle interruzioni pubblicitarie, sulla tutela dei soggetti deboli.

A proposito del canone, una delusione: ci si attendeva una vera tv on demand, con il pagamento limitato a ciò che si chiede. Invece, restiamo allo spartito di sempre. I media personalizzati richiedono di essere ricchi o benestanti.

Il cultural divide incombe. La Rai-servizio pubblico sarà mai un antidoto?