Nella nota di esecuzione di M. E. D. E. A. Big Oil, scritta e diretta da Terry Paternoster e recitata dal Collettivo Internoenki, sta scritto «Opera teatrale in chiave buffonesca, concepita per l’esecuzione corale, divisa in 7 deliri e 21 quadri». Aggiungiamo che la rappresentazione, data per una settimana al Brancaccino di Roma, reinvesta il teatro stesso e il mito. M. E. D. E. A. altro non è che l’acronimo di un master aziendale (Management ed Economia, Dell’Energia E dell’Ambiente, promosso dall’Eni), rielaborazione del mito di Medea nella Basilicata di oggi, sventrata dalle trivellazioni petrolifere (Big Oil). Il dato tragico è un innamoramento senza corrispettivo d’amore, con la donna lucana protagonista contraddetta dalle promesse e tradita dall’amante straniero.

Nell’opera di Euripide, Medea reagisce crudelmente uccidendo i figli perché abbandonata da Giasone che si è invaghito di Creusa e pur consapevole dell’aiuto che ha ricevuto dalla donna per conquistare il Vello d’oro. Qui la seduzione è economica e sociale, intorno al paradigma dello «sviluppo» che cancella l’ambiente, per la scoperta «maledetta» – anche qui come nei Paesi terzi ricchi di fonti di energia e per questo da noi assoggettati – di importanti giacimenti petroliferi che hanno fatto della Basilicata la prima realtà di estrazioni del greggio in Italia senza, paradossalmente, che sia risolta l’ambiguità che la vede come la più povera delle regioni italiane. Una seduzione per un benessere che non c’è quanto a ricadute vere se non nella manomissione della natura poi devastata. E che si tramuta in una esistenza straniata, nella mancanza di lavoro nel presente e di tempo, nel futuro. Il nodo è: chi decide le forme del tanto promesso e agognato sviluppo? Altrimenti è la terra ad uccidere i propri figli. Siamo dentro il tragico «non detto» attuale.

Come tutto questo diventa straordinaria rappresentazione scenica? Due le qualità, della scrittura e degli attori. Il testo scarta da altre suggestive attualizzazioni del mito, da Pasolini che voleva Medea «Signora del sole» e da Von Trier che la vuole «Signora dell’acqua», per assumere quella di «Signora della luna»: perché essa non teme i tradimenti, ha fiducia, riflessa e cieca, nelle promesse dello straniero. Per questo la donna (interpretata dalla stessa autrice) diventa la guida di una protesta sorda, fatta di lamentazioni e scongiuri, volta a volta individuali o raffigurate dal Coro. Non siamo solo nel pieno della tragedia greca riproposta, c’è l’attraversamento degli strumenti «locali» e la voglia di costruire coscienza diffusa. Torna la cultura popolare lucana, con i materiali dell’esperienza sul campo di Ernesto De Martino, torna – così abbiamo sentito – il ritmo greco della lingua e dei versi di Albino Pierro, il grande poeta lucano di Tursi.

E poi c’è il lavoro degli attori, che parlano per immagini, danzano le ombre, urlano i silenzi. Nella fatica di essere teatro con una voce necessaria. In una modalità ctonia, che viene dal profondo delle viscere e restituisce uno scavo quasi archeologico. Perché la verità dell’attualità sta sotto. E ognuna/o, nelle opere quotidiane, preparando la salsa di pomodoro, impastando il pane, allattando un bambino, dormendo e al risveglio… ognuno ricostruisce la legittimità-illeggitimità dei gesti e li restituisce ai rapporti umani che lo legano agli altri. Cioè al Coro, specchio unitario della frammentazione che resta sotto l’occhio e le gesta del potere. Sorprende il sincrono con cui gli attori, uno ad uno, scandiscono la loro parte individuale e collettiva, dando movimento ai corpi, dal nero alla luce, come venissero da un bassorilievo e lì fossero destinati a tornare.

Non sorprende che l’opera abbia ricevuto riconoscimenti come il Premio Ustica. Sgomenta che questo modo necessario di fare teatro, che resoconta la realtà profonda e coinvolge – ci hanno raccontato dell’«emozione» quando è stata rappresentata in terra lucana – sia troppo poco conosciuto nell’epoca degli stereotipi da «grande bellezza».