Non credo di essere d’accordo con le argomentazioni di Lea Melandri a proposito di Me Too (il manifesto, 13 gennaio), ma non vorrei, per così dire, risponderle, o ribattere, o partecipare a un “botta e risposta” più ampio e sempre più aspro, anche tra femministe, tra donne, tra uomini e donne.

Perché in effetti mi interrogo tra me e me molto di più attorno al seguente interrogativo: davvero l’esplosione di pubblici racconti sui ricatti sessuali subiti dalle donne da parte di uomini sul lavoro, nelle carriere, in tutte le situazioni di maggiore disparità di potere non allude a niente di diverso dal passato, niente di nuovo?

O meglio: questa esplosione, questa che io chiamerei rivolta, non potrebbe forse avere il senso di una “vertenza”, come a dire: tra i tanti compromessi e arrangiamenti e danni che una crisi economica radicale impone anche alle donne, questa libertà assoluta di ricattarci non intendiamo tollerarla più? Perché non contemplare questa ipotesi? Perché non solidarizzare, semplicemente, e poi allargare il discorso? Forse perché (in maniera un filino bigotta) non ci fidiamo delle attrici?

C’è qualche maschio d’antan che in effetti si appoggia paradossalmente alla Deneuve (attrice d’altra epoca e – come garbatamente insinua Dominianni – tipicamente francese) per tacciare di puritanesimo “amerikano”, imperialcapitalista, questa marea di denunce pubbliche.

E se invece , in tempi di crisi della politica, riuscisse meglio alle lavoratrici dello spettacolo la presa di parola pubblica, anche a nome, poniamo, delle lavoratrici di altri settori? E se questa vicenda annunciasse altro, per esempio proprio un complesso articolarsi della posizione delle donne in uno scenario che è, da un lato, di perdita di diritti e di poteri anche per loro, e dall’altro di esperienze, saperi, piaceri, relazioni e mobilità di vite infinitamente superiori al passato e quindi destinate ad aprire un nuovo tipo di contraddizioni, pubbliche e private, tra uomini e donne?

Se così fosse, direi che ci si potrebbe mettere al lavoro per capire un po’ di più il presente – che non è esattamente quello che ci aspettavamo ai tempi del “nostro” femminismo (la sottoscritta ha settant’anni suonati). O forse meglio incoraggeremmo nell’impresa le/i più giovani.

Perché per quanto arcaico sia l’inconscio, per quanto tenace sia il vissuto neonatale nel plasmare i comportamenti adulti, per quanto millenaria sia la prepotenza maschile sulle donne tuttavia alle relazioni tra umane/umani d’oggi non si presenta affatto, mi pare, lo stesso scenario che credevamo si presentasse alla nostra generazione.

Una quarantina d’anni potrebbero aver portato alla luce un mutamento che certo covava da tempo ma che adesso sembrerebbe realizzarsi con particolare violenza: una spettrale perdita di senso di quel che molte hanno voluto chiamare differenza sessuale, con un conseguente sbandamento o terremoto negli stili, nelle aspettative, nelle arti delle relazioni umane tutte, sullo sfondo di fenomeni migratori che parlano di disastri ambientali e sociali, di esplosione demografica e di genocidi, insomma di nascita e di morte su scala gigantesca.

E una minaccia di arretramento davvero pesante – il fascismo è, in nuce, anche un disciplinamento dell’intimo e dei corpi, è la violenza sessuale come arma, come tortura.

E intanto c’è un ribellarsi e un arrangiarsi, un parlare e un tacere anche delle donne che andrebbe “trattato” con attenzione, direi con delicatezza politica: ai miei occhi il no corale al ricatto sessuale suona bene, altri segnali su altri terreni mi suonano male.

Ma più che aderire a questo e respingere quest’altro sono, credo, rimessa in gioco.

Tocca interrogarsi di nuovo sul perché di ogni posizionamento, alla luce della propria esperienza e nel confronto con le esperienze altre, più che sulla base di antiche teorizzazioni. Anche se questa autocoscienza per lo più si svolge in solitudine.