Sette su sette per il piccolo soulman di Haiti. Bruno Mars fa en plein ed è il re della sessantesima edizione dei Grammy Awards, che ha segnato il ritorno degli «Oscar» della musica dopo quindici anni di trasferta losangelina, a New York sul palcoscenico del Madison Square Garden, condotta da uno scoppiettante James Corden. 24K Magic – miglior album – per la verità non particolarmente osannato dalla critica specializzata alla sua uscita dodici mesi orsono – ha accontentato con i suoi omaggi alla disco, alla dance e al soul vintage più livelli di pubblico e addetti ai lavori.

Cinque piccoli «grammofoni» se li è portati a casa anche Kendrick Lamar, tra cui miglior album rap, migliore canzone rap e best rap performance. Solo due Ed Sheeran, la post star globale, miglior canzone Divide e miglior performance pop per Shape Of You. Grammy «postumo» al miglior album rock andato allo scomparso Leonard Cohen per You want it darker, il suo quattordicesimo uscito un mese prima della morte. Pochissime donne premiate; Alessia Cara è miglior «nuova artista», Cecile McLoran Salvant si guadagna una statuetta con il suo Dreams and Daggers, jazz album 2018, e suona strano – ma non troppo a sentire le accuse di molte artiste contro un ambiente definito senza troppi giri di parole: «misogino», alla luce di una cerimonia in cui la voce delle donne si è sentita, eccome.

Tanto che l’exploit di 24K Magic e dei suoi molti singoli, passa un po’ in ombra oscurato dalle vere protagoniste della serata, le donne, le artiste, il movimento #Me Too e Time’s Up e la loro volontà di portare sotto i riflettori non solo la vicenda delle molestie sessuali scatenato dallo scandalo Weinstein, ma anche la profonda discriminazione – anche salariale – fra uomini e donne. Le parole di Janelle Monae,attrice e cantante, suonano perentorie: «Gli stessi problemi che hanno afflitto Hollywood sono gli stessi dell’industria musicale. E voglio ribadirlo questa sera, non solo come artista ma anche come giovane donna. A chi ci vuole far tacere rispondiamo con due parole: Time’s Up. Non vogliamo più iniquità salariali, violenze, abusi di potere. Dobbiamo dire no: veniamo in pace ma abbiamo degli obiettivi che devono essere realizzati».

Poi il momento più toccante, Kesha interpreta Praying scritta contro Doctor Dre, suo ex fiancé e produttore, con il quale ha aperto da quattro anni un contenzioso legale, con le accuse di violenze psicologiche e sessuali. Sul palco con lei: Andrea Day, Camilla Cabello, Cyndi Lauper, Julia Michaels, Bebe Rexha e il Resistance Revival Chorus. Sono tutte rigorosamente vestite di bianco, il colore delle suffragette scelto per caratterizzare il movimento Voices in Entertainment, accompagnato da una rosa bianco che tutte le popstar presenti al Madison portavano.

Anche Lady Gaga non è da meno – sua la performance migliore dello show, seduta al pianoforte coperto da due enormi ali bianche e accompagnata alla chitarra acustica da Mark Ronson, intona Joanne e Million Reasons, inserendo in quest’ultimo brano una modifica al testo con un riferimento a Time’s Up. Ma è stata anche la serata degli attacchi a Trump – al contrario di quanto accaduto ai Golden quando l’inquilino della casa bianca è stata oggetto solo di qualche velata allusione – a partire dall’esibizione in apertura di cerimonia degli U2. In collegamento da un palco allestito davanti alla statua della libertà, Bono & co hanno eseguito Get Out of Your Own Way, apertamente in polemica con il Presidente e rivolta a tutti affinché «si lotti per la libertà».

Un altro sketch registrato da studio quando Corden, chiama John Legend, Cher, Snoop Dogg e Hillary Clinton a leggere dei «passi» dal libro del presidente Fire and Fury, perché anche lui «possa concorrere nella categoria Spoken Word…».