Luigi Pintor descriveva i magistrati come «mostri spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere» e Fabrizio De André cantava Il giudice, mentre la magistratura aveva il sostegno incondizionato della destra. Non per caso, ma per la prevalente intraneità del corpo giudiziario al sistema di potere che governava il Paese.

Trent’anni dopo il quadro sembrava capovolto. La giustizia era tra i pochi temi capaci di mobilitare una sinistra smarrita, divisa, priva di idee e accodata (un po’ innaturalmente) a una concezione della giurisdizione come veicolo di progresso e di democrazia, mentre ad attaccare giudici e pubblici ministeri, con un accanimento a dir poco inconsueto, erano la destra e suoi paladini. Anche qui, non per caso ma per i profondi mutamenti intervenuti nel sistema giustizia, in conseguenza del clima politico esterno e della spinta di vivaci componenti interne.

Oggi il quadro è nuovamente cambiato. I magistrati hanno scoperchiato santuari intoccabili e affermato diritti precedentemente privi di tutela ma nello stesso tempo (e talora insieme, in un intreccio perverso) ci sono state gravi cadute sul piano delle garanzie, assunzione di compiti impropri in particolare da parte di pubblici ministeri, riallineamenti con i forti a scapito dei deboli. Poi è intervenuto il «ciclone Palamara», spia del vuoto di ideali di un ceto associativo impegnato a tempo pieno nel distribuire favori e promozioni con una volgarità disinteressata finanche alle forme. Così sembra essere crollato un mito, c’è nei confronti dei magistrati (e del loro Consiglio superiore) una diffidenza bipartisan e sono in molti a cogliere l’occasione per tentare di riportare i giudici «sotto il trono» del sistema politico. In parallelo, nella maggioranza della magistratura è forte la sindrome della «cittadella assediata» che amplifica il corporativismo e l’incapacità di dialogo con la società.

Si colloca su questo crinale il congresso di Firenze di Magistratura democratica, un appuntamento importante e non di routine.
Delle vicende della magistratura negli ultimi 50 anni, infatti, Md è stata protagonista fondamentale e con una spiccata autonomia, come ricordano, non senza ironia, Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli nella ricca conversazione Una fragile indipendenza (Edizioni SEB 27, 2021): «Md non era la cinghia di trasmissione del Pci. Casomai, nella testa di qualche dirigente di Md il rapporto era rovesciato, il Pci doveva fare quello che diceva Md». Ciò – merita sottolinearlo – è avvenuto in stagioni non meno complicate di quella attuale: basti pensare alla conventio ad excludendum degli anni ’70 nei confronti dei giudici progressisti, ai rapporti con Sindona di un magistrato potente come Carmelo Spagnuolo, agli ammiccamenti con la P2 del segretario della corrente maggioritaria dell’Associazione magistrati. Allora Md, pur numericamente ridotta, seppe essere, dentro e fuori l’istituzione, un imprescindibile elemento di confronto e realizzò una vera e propria egemonia culturale nella costruzione di un modello alternativo di magistrato, di organizzazione giudiziaria, di politica della giustizia egualitaria, garantista e coerente con il modello costituzionale. Poi, per una pluralità di ragioni, quel ruolo si è attenuato. E se ne sono visti gli effetti…

Oggi i temi sul tappeto, strettamente connessi con la questione morale, sono di nuovo quelli di una giustizia disuguale, di una repressione spesso cieca e guidata da ragioni di ordine pubblico, di una frequente caduta delle garanzie, di un continuum tra potere politico e giurisdizione (a volte longa manus di poteri forti: non ingannino alcune rumorose indagini sedicenti eccellenti!). La storia non si ripete mai allo stesso modo ma di nuovo, per uscire in avanti da questa situazione ci vogliono intelligenza politica, coerenza e, soprattutto, consapevolezza che senza conflitto, anche interno al corpo giudiziario, vincono sempre corporativismo e status quo. Per questo, e non per ragioni di schieramento, il congresso di Md non può essere rituale.