«Non vogliamo difendere né accusare nessuno, non diamo voti. Solo non possiamo nascondere l’evidenza che questa vicenda della morte del povero Stefano Cucchi è una sconfitta per alcuni pezzi dello Stato. Quale pezzo e da chi era rappresentato in quei frangenti, bisognerà accertarlo». Luca Poniz, procuratore aggiunto di Milano, fa parte del comitato esecutivo di Magistratura Democratica, la corrente delle toghe che ieri è intervenuta sul caso Cucchi con una nota pubblicata sul sito.

Dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma, il vostro è un segnale importante, dall’interno della magistratura…

No, no. Sia chiaro: il nostro comunicato non può e non vuole essere una critica a una sentenza, a questo o a quel grado di giudizio. Il problema è chiedersi se tutta questa vicenda, nell’insieme, dalla sua genesi fino all’attuale giudizio lasci rassicurati. Non tanto sul fatto che la decisione sia conforme oppure no alle aspettative della famiglia, ma se sia rassicurante rispetto ad una vicenda davvero molto particolare. C’è una persona che viene affidata a un pezzo del nostro Stato – la parola «Stato» è troppo generale per poter essere univocamente utilizzabile come foriera di responsabilità – al momento dell’arresto; poi a un altro pezzo dello Stato al momento del trasferimento in carcere; poi ancora ad un altro pezzo, i servizi sanitari; e a un altro, quello giudiziario; e infine a quello della decisione. In ciascuno di questi segmenti c’è stato qualcosa che evidentemente non ha funzionato. A cominciare da una circostanza non adeguatamente valorizzata che il povero Cucchi nel momento in cui forse avrebbe potuto raccontare cosa gli era successo non ha potuto o non ha voluto, forse anche perché non si fidava di quei pezzi dello Stato che aveva incontrato. In questo senso è una sconfitta.

Quindi nessuna «autocritica»?

Non sono abituato a commentare sentenze di cui non conosco nemmeno le motivazioni. Ma anche come cittadini non possiamo nasconderci che quella persona è morta e che è accertato e pacifico che Cucchi ha subito delle lesioni che non sono state autoinferte. Vuol dire che qualcosa di illecito è stato commesso a suo danno. E questo significa che un pezzo dello Stato ha fatto male, illecitamente o addirittura con dei reati il proprio lavoro.

Nella nota scrivete anche: «È una sconfitta per le forze dell’ordine che non hanno saputo collaborare lealmente all’accertamento della verità». Tutto ciò, dite, «ci impone un rinnovato impegno a presidio delle garanzie e a tutela dei diritti di chi è debole e non ha altra forza che quella che la Legge gli riconosce». Insisto: non sarebbe stato più giusto che la Corte d’Appello rinviasse gli atti in procura?

L’assoluzione non significa che la Corte vuole chiudere la vicenda. Cercando il nesso tra le lesioni e la morte, la Corte ha assolto tre categorie di imputati – agenti, medici e infermieri – cioè coloro ai quali astrattamente le lesioni e le cure ipoteticamente omesse erano ascrivibili, ma non aveva titolo di poter immaginare altri tipi di responsabilità. Ciò non impedisce alla procura di formulare altre ipotesi. Insisto sull’ambito preciso nel quale il comunicato di Md si vuole collocare: da uomini e donne dello Stato sentiamo che nell’insieme questa vicenda lascia un evidente senso di insoddisfazione. Ma anche di impotenza. Perché uno Stato, che sulla carta ha un gigantesco potere, in questo caso ha dimostrato di arrendersi, comunicando ai cittadini che hanno seguito il caso un senso di impotenza e anche di non chiarezza. Rimane infatti enorme il quesito di chi sia stato a infliggere quelle lesioni. Perché le lesioni ci sono state. Questo è ciò che l’opinione pubblica percepisce con sgomento. E anche noi magistrati abbiamo difficoltà a spiegare perché quella domanda non ha ancora una risposta.