Quasi un quarto di secolo fa, grazie alla felice congiunzione di una scrittura capace di ordire suspence inquietanti e all’esperienza maturata all’ombra del padre, direttore del Broadmoor Lunatic Asylum, uno degli ospedali psichiatrici più importanti dell’Inghilterra, Patrick McGrath fu in grado di confezionare un best-seller di qualità, Follia (Adelphi 1998), in cui raccontava la storia della passione ossessiva di uno scultore, ambientandola in un manicomio criminale.
L’amore – disse allora l’autore inglese nel corso di un nostro incontro a New York dove nel frattempo si era trasferito – «mi interessa in quanto fonte ideale di quel disordine che è necessario alla organizzazione della trama». Patrick McGrath aveva alle spalle una stagione narrativa di cui testimoniano, fra l’altro, alcuni dei testi pubblicati nella discontinua raccolta uscita da poco per La nave di Teseo, Racconti di follia (con una sezione inedita in italiano, traduzioni di Alberto Cristofori e Andrea Silvestri, pp. 518, € 22,00) i cui titoli più riusciti sono tutti datati alla fine degli anni Ottanta.

Nel primo, «L’angelo», un vecchio gay attira l’attenzione del narratore aggirandosi nei dintorni della Bowery «con la graziosa condiscendenza di un sovrano», vestito dei cascami di una antica eleganza, la forma della bocca ormai sfasciata ridisegnata dal rossetto. Una volta consumati i convenevoli, il gay racconta al narratore, che ce la restituisce con la dovuta perplessità, la sua storia segnata dall’incontro con un giovane dandy sofisticato, che gli appare come il suo stesso sosia.

Se ne invaghisce, passano ai fatti e quello gli rivela un corpo latteo cui manca l’ombelico, ciò che convince il protagonista di trovarsi al cospetto di un angelo. Prevedibile la rivelazione cui si va incontro, non scontato invece l’epilogo, uno dei pochi esempi di incursione nel genere al quale Joyce Carol Oates iscrive, invece, l’intera produzione di Patrick McGrath, nominandolo «sommo adepto del gotico letterario contemporaneo». Lungi dallo sfiorare simili vette, lo scrittore inglese ha prodotto, tuttavia, onesti intrattenimenti sui quali dirottare la nostra concentrazione disturbata dalla pandemia in corso, qualche prelievo dai quali potrà darne, forse, una vaga idea.

Forte soprattutto di squarci di ambientazioni suggestive, il racconto titolato «Victor bibulus» oscilla tra gli interni di un piccolo ristorante nascosto in un vecchio deposito nel quartiere dei macelli di Manhattan, al cui piano superiore ha il suo studio un pittore di nome Jack Fin, e gli esterni lungo l’Hudson, dove senza gravi conseguenze il protagonista decide di buttarsi.

Sul culmine di montagne di sale, alcuni senza tetto osservano, e un ragazzo che quella notte vide Jack tuffarsi gliene domanderà ragione. Per nulla turbato, Jack Fin non negherà, adducendo la sua ubriachezza come scusa, e ottenendo che il suo giovane interlocutore sospetti in lui l’artista che, effettivamente, egli è. Non sono pochi, nei racconti di McGrath, i pittori e gli scultori, non a caso, perché l’arte è esplicitamente, per lui (e non solo, naturalmente) «nemica della follia» in quanto mezzo privilegiato per sublimare la sofferenza psichica.

Il ricorso a un altro luogo molto frequentato dalla letteratura, questa volta un luogo fisico, l’interno di una prigione, fornisce allo scrittore inglese la cornice per uno dei suoi racconti più riusciti, «La storia di Arnold Crombeck», avvelenatore seriale di sole donne, che viene interrogato da una giornalista californiana sfuggita alla routine dei servizi sulla moda, alla vigilia della impiccagione. Crombeck disquisisce sulla incompetenza degli americani nell’allestire un cappio scorrevole, in grado di procurare la morte subitanea. Lui – fortunato – affiderà fra poco il suo collo alla maestrìa dei boia inglesi.

Le donne, racconta, le uccideva tre alla volta, poi le raggruppava e le metteva in posa, ricavandone «un genuino piacere estetico», e dopo ancora le «piantava» in giardino, a mo’ di «tableaux morts». «Strana bestia le mente», commenta.
È ambientato in una prigione anche il racconto (tradotto per la prima volta) «Vigilanza», la cui voce narrante appartiene a una studentessa di diritto penitenziario, che spierà il suo professore avviandolo alla rovina. Esercizio utile alla ragazza, quello di rodare la sua furia punitiva, in vista della realizzazione del sogno a lungo inseguito, ricoprire un ruolo nell’ala di massima sicurezza del carcere nel quale aspira a lavorare.

Ancora più immerso nel suo habitat narrativo ideale, McGrath racconta in «Lo spiedo» la storia di un noto critico d’arte, che già traumatizzato dalle conseguenze mortali di un incidente con l’aeroplano nel quale viaggiava con la sorella, aveva finito per impiccarsi. I risultati dell’indagine del coroner, basati sulla testimonianza dello psicoanalista che aveva avuto in cura il critico, non soddisfano la di lui nipote, voce narrante di una parabola esistenziale ricostruita sulla base del diario dello zio, tormentato da visioni persecutorie nelle quali gli appaiono Freud insieme a Otto Rank, cui si unirà Ernest Jones, e più tardi Ferenczi; intervallati al diario, la nipote riporta indignata i commenti dello psicoanalista, che interpreta queste «allucinazioni compensatorie» facendo ricorso alle più trite allegorie del mestiere.

Ancora alla fine degli anni Ottanta, e sempre nella prima persona di un Io narrante, McGrath scrive «Marmilion», la cui protagonista è la moglie di un Cajun, che alla ricerca degli ultimi esemplari di scimmie-ragno della Louisiana attraversa la palude di Charenton per andarle a fotografare e si imbatte nella casa colonica il cui nome dà il titolo al racconto. Ambientato più o meno al tempo in cui la Louisiana si staccò dall’unione, ovvero nel 1861, il racconto si insinua nel passato di quella cadente magione, quando tra le sue mura si consumava il dramma di un ex schiavo andato in moglie alla figlia della padrona.

Dalla raccolta titolata «Città fantasma», chi trovasse conforto nell’immergersi in una finzione non troppo diversa dalla nostra contingenza, potrebbe pescare «L’anno della forca», la cui voce narrante si guarda intorno in una New York già crocevia del mondo e ora desertificata dal contagio in corso, il cui porto è chiuso perché troppo «vulnerabile alle malattie». «Vedo uno schifo (presumibilmente uno scafo, se oltre ai correttori automatici ce ne fossero anche di redazionali…) che si stacca dall’estremità del molo, una vela che si alza: a bordo della scialuppa ci sono tre bambini, due donne, qualche cassa. Si dirigono verso Long Island nella speranza di sfuggire al contagio fra quei campi verdeggianti. Una vana illusione! Dovunque vada l’uomo, la pestilenza lo segue!». Più che un monito, una maledizione, ma noi sappiamo che, già allora, non andò così.