Con garbata ironia, quella che ha contraddistinto il suo modo di fare gentile e riservato, in pratica un rovescio della miscela incendiaria che scatenava sugli ottantotto tasti del pianoforte, McCoy Tyner nel 1967 intitolò un suo disco – inciso in un solo giorno – The Real McCoy. Ai non anglofoni dice poco la breve frase, «il vero McCoy». È un’espressione idiomatica che significa «la cosa genuina», l’originale che mai e poi mai potreste prendere per una copia. Il vero McCoy Tyner, scomparso la settimana scorsa nel New Jersey, a ottantuno anni, c’è sempre stato, in ogni contesto dove ha potuto esercitare il suo magistero tanto grande quanto poco ricordato, quando si tirano le somme dei pianisti più originali nella storia delle musiche afroamericane. Anche se per molti il «vero McCoy», l’originale, nulla togliendo a una carriera pressoché sempre nel segno dell’eccellenza, si concentra in due momenti topici della sua lunga carriera. In primis, l’essere parte del formidabile quartetto di John Coltrane lanciato alla conquista di nuove vette da scalare, nella catena dell’Himalaya delle nuove possibilità offerte, come rampa di lancio, da quel magico 1959, l’anno in cui cambiò il jazz. Subito dopo quando, lasciato a malincuore «Trane» spinto verso estremi espressivi in cui non si riconosceva più, si riprese il fuoco della sua diteggiatura, e diede vita a una manciata di dischi palpitanti, di una vitalità estrema e ammaliante, nel riportare profumi di «musica dal mondo», sulla scorta delle lunghe cavalcate modali già praticate con il sassofonista sommo.
IL VICINO DI CASA
Alfred McCoy Tyner era nato a Filadelfia l’11 dicembre 1938: a tredici anni lo studio del pianoforte, e giovanissimo i primi ingaggi in quell’ambiente del rhythm and blues che aveva dato da vivere anche a Coltrane. Un’ottima palestra di resistenza, anche se i riferimenti del giovane Tyner andavano a maestri jazz della tastiera come Earl Hines, Art Tatum, e soprattutto Bud Powell, numen bebop di allucinata destrezza, che aveva avuto anche come vicino di casa. Maestri che gli avevano dato solidità, idee ritmiche e capacità di destreggiarsi nelle armonie, quella necessarie, ad esempio, per suonare con il potente Jazztet diretto dal sassofonista Benny Golson, uno formatosi nell’accademia dei Jazz Messengers di Art Blakey, o con Art Farmer, trombettista e soprattutto flicornista eccelso. Incontra John Coltrane a ventidue anni, nel 1960 ed è intesa perfetta, in varie formazioni, per un quinquennio fitto di concerti e registrazioni, ma soprattutto con quel quartetto che è un organismo in perfetto equilibrio, e al contempo un paradosso quasi zen: perché il carismatico ma silenzioso Coltrane nel quartetto faceva la differenza anche quando stava un passo indietro. Un quadrato perfetto di forze coese verso un unico obiettivo: quello che si sarebbe concretizzato in capolavori assoluti della musica come Impressions, A Love Supreme, e fino alle fumiganti avventure finali di Kulu Sé Mama, 1965.
Quattro spinte uguali, dove però una era uguale e diversa dalle altre, per visionaria capacità trascinatrice: e non poteva essere che il sax incandescente di «Trane». Inimmaginabile d’altra parte senza l’immenso lavorio poliritmico di Elvin Jones e il basso risuonante come una caverna di Jimmy Garrison (arrivato dopo Steve Davis e Reggie Workman), a contrappeso. McCoy Tyner, con Trane, ha un ruolo importantissimo: con la pressione continua sulla tastiera funzionava da punto di equilibrio della polpa sonora complessiva, in parte assecondando lo spirito delle fluviali improvvisazioni del leader, in parte punteggiando ritmicamente con un’energia leonina tutta l’ossatura della musica. McCoy Tyner introduce elementi spiccatamente nuovi, nel gruppo di Coltrane: ad esempio prediligendo gli accordi quartali, il suo «marchio di fabbrica» per tutti gli anni a venire, e usando poderose quinte al basso, con la mano sinistra (Tyner era mancino, di base), rafforzate dal pedale. E poi catene di arpeggi possenti, spinte fino agli estremi più alti della tastiera, con un senso quasi di implacabilità ritmica, e block chords, grappoli di accordi per toni interi.
UN GIOCO SOTTILE
In particolare Tyner riesce a intessere un sottile gioco di rimando a figure e colori musicali «africani» intendendosi al volo con Elvin Jones e Garrison, un dato che balza fuori con immediata evidenza in un disco capolavoro come Africa/Brass del ’61. Le grandi cavalcate epiche modali-tonali sperimentate con Coltrane continueranno a fornirgli idee e spunti anche nel resto della sua carriera: quando Trane imbocca deciso la via di una New Thing sciolta nell’improvvisazione più veemente o angelica, a seconda del contesto o del momento, McCoy Tyner lascia il gruppo, ma facendo tesoro dell’intensità struggente sperimentata con il sassofonista. Si apre così, all’inizio degli anni Settanta, una vera e propria seconda vita per McCoy Tyner, da leader di formazioni varie che riescono a riprendere il segreto delle catene poliritmiche africaneggianti, rinforzate da molti colori «etnici».
Pedali, ostinati, imperiosi fraseggi pentatonici, un magma ribollente e percussivo che dà vita a piccoli capi d’opera da riscoprire come Atlantis, Enlightment, Sama Layuca, Sahara. Il segreto è sempre quello: un impianto modale che ospita isole tonali ben stagliate, e la forza invincibile di quel pianoforte che sembra trasportare tutto e tutti in un gorgo risonante. È musica, per molti versi, giubilante e festosa: la festa del mondo con i suoi suoni che sta entrando nel mondo del jazz dalla porta principale, dopo averlo abitato un po’ sotto tono, o clandestinamente, senza riconoscimenti, nel melting pot iniziale delle culture.
CON I GIGANTI
D’altra parte McCoy Tyner non era solo pianista trascinante: sapeva maneggiare, e bene, sia il flauto occidentale sia i flauti antichi di diverse tradizioni musicali, quasi ogni tipo di percussione, era un appassionato cultore e conoscitore del koto, la grande cetra giapponese tradizionale a tredici corde. McCoy Tyner non era finito con i grandi lavori degli anni Settanta: aveva continuato un’attività intensa e motivata, anche se non frenetica, con il gusto di suonare con tutti, nuovi musicisti e giganti del suono afroamericano, ad esempio Sonny Rollins, Stanley Clarke, Michael Brecker, Pat Metheny, Wayne Shorter, Eddie Gomez, Jack De Johnette. Perfino Carlos Santana, il chitarrista «latino» trionfatore di Woodstock.
È un’attività testimoniata peraltro da almeno una cinquantina di incisioni, in cui si possono ritrovare chicche autentiche come Infinity, con Brecker, del ’95, la formidabile 44th Street Suite, accanto al leone del sax tenore Davis Murray, e con Arthur Blythe, Ron Carter e Aaron Scott, Counterpoints, un live potente registrato in Giappone con Ron Carter e Tony Williams del 2004. E una menzione ci starebbe tutta anche per Land of Giants, 2003, confronto diretto con il vibrafono di Bobby Hutcherson.
Nel 2000 era arrivato Jazz Roots: McCoy Tyner Honors Jazz Piano Legends of the 20th Century, un bel modo per chiudere il cerchio, omaggiando Thelonious Monk, Bud Powell, Duke Ellington, Art Tatum, George Gershwin, Chick Corea e Keith Jarrett. Tyner a tutto tondo, dal pianista che inventò il solismo nel jazz al nevrotico perfezionista del concerto di Colonia.
Domani qualcuno metterà anche lui, nel pantheon di chi ha scritto la storia del jazz sugli ottantotto tasti.