Terzo film dell’artista/regista Steve McQueen, tratto dalla storia vera di Solomon Northup, il cui memoriale, 12 Years a Slave, venne pubblicato per la prima volta nel 1853, pochi mesi dopo l’uscita di La capanna dello zio Tom, della scrittrice abolizionista Harriet Beecher Stowe. Scomparso dalla circolazione fino agli anni ’60, quando è stato resuscitato dalla studiosa Sue Eakin, il libro ripercorre la vicenda di Northop che, da uomo libero, musicista nello stato di New York, viene rapito, ribattezzato, caricato a bordo di una nave diretta in Louisiana e venduto come schiavo. Nel 1984 Gordon Parks, ne aveva già tratto un film Solomon Nothup’s Odyssey. Spiegando l’origine del suo 12 Years a Slave, McQueen ha dichiarato spesso che il libro è stata una rivelazione immediata, paragonandolo più volte a Il diario di Anna Frank, «solo cent’anni prima».

Il regista di Hunger e Shame fa cadere i suoi film dall’alto della sua esperienza nelle arti visive. La sua è un’opera di immagini studiatissime, molto belle e glaciali che si contrappongono allo shock value dei suoi soggetti – al cinema, l’agonia di Bobby Sands e la frenetica addizione/abiezione sessuale del protagonista di Shame. 12 Years a Slave è concepito secondo lo stesso principio. Insieme al direttore della fotografia di sempre, Sean Bobbitt, McQueen mette in scena una serie di tableaux vivents della crudeltà, con riprese lunghissime, spesso in campo totale, composte con grande eleganza, in cui la bellezza degli sfondi si scontra contro l’orrore di ciò che avviene nella scena – un uomo appeso per i piedi per un giorno intero, una schiava stuprata ripetutamente. L’inguardabilità è la sua scommessa – nel caso che qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che la schiavitù sia stata una cosa orribile, disumana. Chiwetel Ejofor è Northop, Michael Fassbender (l’attore talismano del regista) è il suo aguzzino peggiore, Brad Pitt il falegname canadese che lo salva e Lupita Nyong’ la schiava cui sono riservati i più feroci tormenti.

«Quello che mi ha motivato», ha detto McQueen parlando del film in un’intervista a Film Comment, «è stato un istinto di amore, parola che non viene usata spesso in questo contesto. Volevo «abbracciare» il peccato della schiavitù, ipotizzarne un’accettazione, non solo mia».

Nelle recensioni universalmente entusiaste, alcuni critici hanno scritto di aver pianto. E 12 Years A Slave arriva agli Oscar avvolto da un’ aura di santità e inevitabilità piuttosto pesante. It’s Time, è arrivato il momento, dice addirittura una scritta sul manifesto del film in una campagna pubblicitaria pensata per la statuetta.

Volevo essere onesto nel mostrare quello che era realmente la schiavitù, i suoi intollerabili abusi – non la versione romantica, idealizzata e asettica di film hollywoodiani come Via col vento. La mia è una rappresentazione esatta di quell’epoca: il film può sembrare melodrammatico, ma è un ritratto rigoroso degli orrori dello schiavismo». Questa citazione, però, non è di Steve McQueen, bensì di Richard Fleischer, e risale al 1975. Il film di cui parla il regista di I Vichinghi e Ventimila leghe sotto i mari è Mandingo, tratto dal romanzo di Kyle Onstott (il primo del ciclo dedicato a Falconhurst, una piantagione dell’Alabama tra il 1879 e il 1887). Nel film James Mason era il crudele patriarca schiavista, Perry King suo figlio e il campione dei massimi Ken Norton Mede, il gigantesco, docile, schiavo/stallone che viene bollito in pentola dopo aver messo incinta la moglie del padrone. Devastante quadro di ingiustizia sociale, violenza, abuso, misoginia e psicopatologie sessuali, Mandingo venne fatto letteralmente a pezzi dalla critica («spazzatura razzista», secondo Roger Ebert), sostanzialmente per le stesse ragioni con cui adesso celebra McQueen. Arrivato pochi anni dopo che film come Sweet Sweetback’s Baaddasssss Song, Shaft e Superfly, e il successo di autori afroemaricani come Melvin Van Peebles e Gordon Parks, avevano illuminato l’esistenza di un vasto mercato per il cinema poplare, di genere, a sfondo black, Mandingo fu completamente frainteso. Fleischer invece, che in postproduzione litigò molto con De Laurentiis e fu costretto a tagliare parecchio il suo director’s cut, lo riteneva un lavoro di denuncia, molto personale. Rivisto oggi, quel film tuttora «maledetto», sembra infinitamente superiore al glaciale sadismo arty di McQueen.