Ieri la squillante disfatta, oggi la vittoria mutilata. 306 contro 325, una maggioranza di 19: salvata dalla sporca decina del Dup, che si era opportunamente comprata per stare a galla dopo le catastrofiche elezioni anticipate del 2017, Theresa May continua a restare dov’è.
MA PER FARE COSA? «Continuerò a lavorare per mantenere la solenne promessa al popolo di questo Paese circa il risultato del referendum ed uscire dall’Unione europea». Il che, tradotto in brutale linguaggio politico, non significa altro che continuare delle consultazioni inutili sulla salma ripescata di una bozza di accordo annegata la sera prima dal dissenso della Camera, nelle quali i margini di manovra semplicemente o non esistono o sono spaventosamente ridotti. Troppo controverse e divisive le questioni sul backstop, sul secondo referendum, sul rischio di Brexit “dura”.
Dopo una giornata di dibattito (e un particolarmente spregevole discorso di Michael Gove, l’ex sodale di Boris Johnson del quale aveva spietatamente azzoppato le mire di leadership salvo poi scoprirsi pretoriano di May), Westminster si è infine pronunciata sulla mozione di sfiducia avanzata martedì sera da Jeremy Corbyn dopo la catastrofica sconfitta del governo. Come andava delineandosi fin dalla mattina, la paura di un governo laburista – autenticamente tale, non la combriccola di pubblicitari che era diventato quel partito – è tornata a campeggiare a Westminster, oscurando per un istante l’unicorno Brexit.
Nel presentare la sfiducia, Corbyn non aveva fatto altro che mantenere la promessa contenuta nel manifesto che il partito aveva pubblicato all’ultimo congresso.
L’obiettivo principale erano le elezioni anticipate e il leader è stato coerente con esso. Semplicemente, i numeri non c’erano. Ma ci potrebbero essere altre mozioni di sfiducia, alla prossima occasione utile. All’invito al dialogo della premier ha risposto che prima va rimossa del tutto l’eventualità di un no deal.
Dare a qualcuno del morto vivente è un insulto di volgare banalità e finora Corbyn non vi aveva mai fatto ricorso. Ma definire quello di Theresa May un governo zombie, come ha fatto ieri il leader laburista, è apparso prima di tutto come un doveroso ossequio alla realtà. Barcollante, punteggiata di mezze figure, la compagine May era stata spazzata via soltanto poche ore prima assieme alla sua bozza di accordo per il ritiro del Paese dall’Ue con uno scarto di 230 voti, in quella che sarà ricordata come la più umiliante sconfitta parlamentare di un governo britannico dalla Magna Carta a oggi (si fa per dire).
Un governo a guida Corbyn, che rischi di smantellare di neoliberalismo ingordo e iniquo al quale sia i Tory che il Labour hanno finora equamente contribuito, francamente, sarebbe stato troppo.
PER CUI SI TORNA a correre sul posto, mentre oggi mancano settantuno giorni all’ora X, e mentre Bruxelles contempla mestamente in silenzio. Del resto, da parte dell’Ue il disco è sempre lo stesso: inutile pensare a dei cambiamenti sostanziali all’accordo, sudato dopo due anni e mentre l’Unione ha ben altri problemi. In mezzo a questa palude l’unica cosa quasi certa è un’estensione dell’articolo 50. Fin quando la premier sopravvivente non metterà insieme un improbabile piano B già la settimana prossima. Intanto, la falena di Westminster continua a sbattere dentro la bottiglia Brexit.