Il prossimo 8 giugno la Gran Bretagna si recherà nuovamente alle urne a poco più di un anno di distanza dal referendum che ne ha decretato l’uscita dall’Unione Europea, stavolta per elezioni politiche anticipate. L’ha dichiarato ieri mattina davanti a Downing Street la premier Theresa May, in una comunicazione fatta addirittura prima delle 11.30, orario in cui era stata inizialmente annunciata. Già oggi in parlamento si vota quindi per aggirare, su iniziativa della maggioranza, il Fixed Term Parliament Act, la legge che fissava la data delle politiche al suo termine costituzionale, il 2020, un’autorizzazione alla quale nessun partito di opposizione ha annunciato di voler contrastare.

Al rientro dalle ferie pasquali, la Gran Bretagna vede così pioversi in grembo l’annuncio di elezioni politiche anticipate da tenersi tra meno di due mesi. Si apre così ufficiosamente un’ennesima, cruciale campagna elettorale in un paese disavvezzo alle elezioni frequenti e in cui tuttavia le consultazioni, fra elezioni amministrative e referenda, si protraggono da almeno un paio d’anni.

Apparsa riposata dalla vacanza podistica in Galles appena trascorsa in cui ha avuto il tempo di ponderare gli alti e bassi di questi primi mesi da premier, e con l’espressione grave di chi è consapevole del peso dell’annuncio, May ha illustrato concisamente le ragioni che l’hanno indotta a smentire in modo così spettacolare la posizione tenuta finora (si era detta ripetutamente contraria alla possibilità di indire elezioni a sorpresa).

Dopo l’esito del referendum sull’Ue – ha spiegato May – il paese aveva bisogno di una forte leadership, la mia. L’economia ha tenuto, la disoccupazione cala, la gente spende, il Pil è in crescita, (nonostante le previsioni catastrofiste dei remainers, avrebbe forse volentieri aggiunto). Il popolo britannico è stato chiaro, ha ribadito: ce ne andiamo dall’Unione Europea senza voltarci, guardiamo al futuro, abbiamo il piano giusto da negoziare con l’Ue, che vogliamo forte. Come vogliamo forte una Gran Bretagna «capace di mappare liberamente il suo percorso nel mondo, con la nostra valuta, le nostre leggi, i nostri confini».

Ha fatto poi seguito un affondo demagogico in polemica con i recenti inciampi che la sua gestione della Brexit ha subito soprattutto alla Camera Alta e che sembra presentare ufficialmente la nuova griffe di populismo targato Downing Street: il nostro è l’approccio giusto ma gli altri partiti si oppongono. E in un momento in cui c’è un enorme bisogno di unità, questa manca proprio a Westminster. Insomma, «Il paese si unisce mentre Westminster si divide», ha continuato May cui ha fatto seguito un colpo di coda non esattamente in stile Tory alle loro eccellenze, «i membri non eletti della Camera dei Lord», rei di averla intralciata nelle scorse settimane.

«I nostri oppositori sono convinti di poterci ostacolare per via della maggioranza ridotta che abbiamo alla Camera dei Comuni», ha aggiunto la premier: «Ebbene si sbagliano. Sottovalutano la nostra determinazione a finire il lavoro che abbiamo cominciato», ripetendo ancora una volta il tropo del job done. Come a dire: per questo ne approfittiamo ora, mentre l’Ue sta allineando i termini della negoziazione e prima che quest’ultima entri nel vivo.

Ben conscia delle accuse di cinismo e voltagabbanesimo che già le vengono rivolte, May ha usato due volta la parola «riluttanza» nel qualificare la decisione: «Sono giunta con riluttanza solo da poco a questa conclusione, dal momento che avevo ampiamente ripetuto che non ci sarebbero state elezioni politiche prima della data fissata, il 2020. Ma sono convinta che l’unico modo per dare certezze al paese nei prossimi anni siano le elezioni e il vostro sostegno». Infine: «Sarà una scelta fra una leadership forte e stabile nell’interesse nazionale – la mia – o un governo di coalizione debole e instabile guidato da Jeremy Corbyn, puntellato dai Libdem che vogliono riaprire le divisioni del referendum e dallo Scottish National Party» citato senz’altra qualificazione ormai come il nemico interno di thatcheriana memoria.

Quanto alle reazioni dell’opposizione, gongola il leader dei Libdem Tim Farron – «È un’occasione per cambiare direzione al paese»; si fa forza Jeremy Corbyn, che ha tutto da perdere visto il distacco di 15 punti dai Tories patito dal Labour. Per lui si tratta dell’occasione di votare «per un governo che darà la precedenza agli interessi della maggioranza». Per la premier scozzese Nicola Sturgeon, e leader dello Snp, invece quello di May è un «enorme errore di calcolo politico, fatto per spostare il paese a destra». Restano a guardare «i mercati», dove a un calo dell’indice Ftse fa riscontro un recupero della sterlina.