Brexit di unità nazionale? Theresa May apre un tavolo di trattative con Jeremy Corbyn pur di estrarre l’uscita dall’Ue dalle sabbie immobili in cui è invischiata da mesi. Dopo aver fatto l’irenico annuncio lunedì sera, scrollatasi dal tailleur i calcinacci delle ultime due tegole cadutele addosso ieri mattina – altre due defezioni ministeriali dal suo cabinet di cui ormai si è perso il conto – May ha incontrato lo stesso Corbyn, il premier gallese Mark Drakeford e perfino Nicola Sturgeon, la leader scozzese. Colloqui conclusi ieri sera con un nulla di fatto – anche se il Labur ha definito l’incontro «costruttivo» (o «utile, ma inconcludente» secondo Corbyn) – che proseguiranno oggi, forse con un altrettanto nulla di fatto. Ma che, comunque vadano, hanno fatto inferocire la destra Tory.

Ce l’aveva proprio messa tutta la premier a rabbonire i conservatori euroscettici, fingendo forse di ignorare che sono una bestia insaziabile, che non si sarebbero mai accontentati del suo accordo e avrebbero rialzato continuamente la richiesta di riscatto (ne sa qualcosa David Cameron). Ma la spaccatura fra costoro e i moderati europeisti, aggravata dallo smisurato potere del partito ultra-conservatore nordirlandese Dup, aveva sbarrato al suo accordo ogni strada.

L’idea è ancora quella di trovare un punto di convergenza non sull’accordo di ritiro – le 585 pagine che contengono il backstop nordirlandese e su cui l’Ue ha straripetuto non si riapre alcuna trattativa – ma su delle modifiche alla dichiarazione politica dell’accordo, quella parte che tratteggia l’assetto futuro dei rapporti commerciali fra le parti dopo l’uscita e che non ha valore giuridico vincolante da parte dell’Ue. Cercare di farle approvare all’aula – che finora ha risputato qualunque cosa indietro al mittente – il prossimo 10 aprile, giorno in cui l’Ue è assisa su Brexit. Infine controproporle a quest’ultima dopo essersi fatti accordare un’altra estensione della scadenza entro il 22 maggio, così da non dover partecipare alle elezioni europee ed evitare l’uscita dura senza accordo, il 12 aprile. Pedestre (e disperato) buon senso, insomma, più che vertiginosa svolta politica. Prevedibilmente, la cabala di affaristi in declino terrorizzata dalla prospettiva di un governo Corbyn che è il suo partito ha reagito male: con variazioni sul tema di una «Brexit mutilata».

Per una volta, May ha fatto quello che ripete in aula nella sua eloquenza, pedestre pure quella: le spalle al muro, ha aperto un dialogo con l’opposizione nell’interesse nazionale e non in quello dell’unità del partito conservatore. Corbyn si è detto soddisfatto dell’invito, pur sapendo che anche per lui questo compromesso significa uscire dalla comfort zone – leggasi deliberata ambiguità – nella quale era riuscito a mantenersi soprattutto rispetto alla questione di un possibile secondo referendum, sulla quale il gruppo parlamentare laburista egemonizzato dai centristi lo vuole spingere a tutti i costi. Ma compie un passo rischioso, potenzialmente legando il partito a un deal che non vuole nessuno, senza contare che la partecipazione alle elezioni europee, per la quale il Paese ha pronti dei piani di contingenza, galvanizzerebbe l’euroscetticismo e rischierebbe di mandare a Buxelles una schiera di ebbri nazional-sovranisti a guida Farage.

Anche se non si dilaniano apertamente in pubblico come i Tories, i laburisti sono ovviamente altrettanto spaccati su Brexit, anche perché la questione s’interseca con quella della lotta dei moderati alla leadership di Corbyn. Il quale, per garantirsi un minimo di tregua dalla canizza centrista, ma anche dai sindacati che lo sostengono, ha sottoscritto, nel manifesto del partito del 2017, la permanenza nel mercato unico e nell’unione doganale – allineandosi col governo sulla fine della libera circolazione delle persone, e l’impossibilità di introdurre nazionalizzazioni. Un realismo motivato anche se discutibile: l’ansia del grande business e dei sindacati per il no deal è tale da aver provocato perfino, giorni addietro, una dichiarazione della confederazione degli industriali Bci e il sindacato Tuc dove gli ex-nemici di classe parlavano con una sola voce di emergenza nazionale in caso di no deal.