«Il fatto non sussiste». Si è concluso con un verdetto di assoluzione il processo di primo grado della corte d’assise di Milano che vede imputati Eni, Shell, diversi top manager (Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni e l’ex ad Paolo Scaroni), intermediari di spicco e un ex ministro del petrolio della Nigeria accusati di «corruzione internazionale».

Entrambe le società sono accusate di corruzione in Nigeria e sono indagate dai pubblici ministeri italiani in relazione all’accordo che presumibilmente ha visto coinvolti l’ex presidente della Nigeria Goodluck Jonathan e alcuni «mediatori» per l’acquisto, nel 2011, di OPL245, un blocco petrolifero offshore che si stima contenga 9 miliardi di barili di greggio, per 1,1 miliardi di dollari.

«Soddisfazione» da parte dell’Eni che per voce dei suoi legali ha dichiarato che «la sentenza dimostra l’infondatezza dell’impianto accusatorio nei suoi confronti».

Un nulla di fatto, in una delle cause legali più importanti nella storia dell’industria petrolifera che, nonostante la sentenza di primo grado, ha messo in mostra la capacità della più grande multinazionale europea (Shell) e di quella italiana (Eni) di «influenzare i processi decisionali in paesi come la Nigeria pur di trarne vantaggio economico», nonostante gli standard e le clausole anti-corruzione interne alle due aziende.

Questo il quadro emerso durante la parte dibattimentale del processo – grazie all’enorme mole di mail, comunicazioni interne e documentazione acquisita – che proverebbero, secondo la pubblica accusa, «il concorso tra tutti gli imputati nel raggiungere un accordo corruttivo, suggellato con un incontro ad alto livello ad Abuja alla metà del novembre 2010 e poi attuato per l’acquisizione della licenza OPL245 a fronte del pagamento della presunta maxi-tangente».

La vicenda inizia nel 1998, quando l’allora governo militare di Sani Abacha concede la licenza di estrarre petrolio alla società nigeriana Malabu Oil – costituita cinque giorni prima dell’aggiudicazione – di cui facevano parte anche l’allora ministro del petrolio Dan Etete e uno dei figli di Abacha.

Dopo la caduta di Abacha l’assegnazione viene ritirata alla Malabu Oil «per anomalie nell’assegnazione, senza una vera gara d’appalto» e assegnata nel 2002 alla Shell che versa un bonus di firma di 210 milioni.

Ma dopo numerose cause legali intentate da Etete nelle aule nigeriane, viene nuovamente riassegnata, nel 2006, alla Malabu. Nel 2007 Shell muove un arbitrato internazionale, richiedendo danni miliardari, contro la Nigeria con l’obiettivo di riottenere la licenza contesa e lo stesso Etete, condannato in Francia per riciclaggio dei proventi di tangenti, si mette alla ricerca di un nuovo acquirente, contattando l’Eni.

A fine ottobre 2010, Eni si coordina con Shell e intavola una nuova offerta per l’intero blocco, che però fallisce. A quel punto nel negoziato subentra il nuovo ministro della Giustizia, Adoke Bello, che grazie ad alcuni mediatori raggiunge un accordo nel 2011: verrebbe così elaborato uno schema tripartito con cui le società pagheranno il governo (1,1 miliardi da Eni più il bonus di firma già pagato da Shell), che poi salderà la Malabu di Etete, mentre Shell ritirerà l’arbitrato internazionale.

Nel 2013 Re:Common (associazione impegnata contro la corruzione) insieme alle organizzazioni Global Witness e The Corner House aveva presentato un esposto alla procura di Milano e alla Metropolitan Police di Londra grazie al quale, dopo numerose indagini, sono stati tracciati tutti gli 801 milioni arrivati in Nigeria mettendo in evidenza un «sistema corruttivo che ha incluso intermediari dei servizi segreti e diplomatici», con un complicato giro tra banche del Libano e della Svizzera.

Per Re:Common la sentenza di primo grado «è molto deludente, ma non ci fermerà nel nostro sforzo di portare queste aziende a rispondere delle loro azioni. Attendiamo di leggere le motivazioni della sentenza e le spiegazioni che il Tribunale di Milano darà alle pesanti ombre emerse su questa vicenda».