Max Ernst, “The Elephant Celebes”, 1921, Londra, Tate Modern

 

Max Ernst, sulla cui opera il nuovo numero di «Riga» mette a disposizione la traduzione di un vasto materiale critico e documentario (Max Ernst, a cura di Elio Grazioli e Andrea Zucchinali, Quodlibet, pp. 394, illustrazioni in b/n, e 24,00), nacque a Brühl, non lontano dalla città di Bonn. I vari contributi raccolti dai curatori ci permettono di seguire tutte le fasi della sua poliedrica attività, a cominciare da quei venticinque disegni, d’umore ironico, che gli furono pubblicati, poco meno che ventenne, da un piccolo giornaletto scolastico: Aus unserem Leben an der Penne.
Sembra che allora Ernst non s’immaginasse affatto d’intraprendere la carriera artistica: «né nella sua biografia né nei suoi ricordi – ci informa uno dei suoi studiosi più autorevoli, Werner Spies – troviamo lo scenario classico del figlio che si rivendica pittore contro la volontà dei genitori». All’Università di Bonn, anzi, dove si iscrisse nel 1910, seguì principalmente corsi di letteratura, filosofia e psicologia. È pur vero che egli, già nel 1913, esponeva all’Erster Deutscher Herbstsalon in una mostra collettiva presentata dalla rivista «Der Sturm», ma le sue opere mostravano più un desiderio di sottrarsi a qualsiasi influenza precisa che non un tentativo di stabilizzare la propria vocazione. In quegli anni doveva sentirsi come l’uccello di cui parlava di Montesquieu nell’Histoire véritable, immagine dello spirito asiatico, irrequieto e mobilissimo, in opposizione al pensiero occidentale, circospetto e raziocinate, che al filosofo ricordava l’incesso nobile e severo di un elefante. E che Ernst amasse il mondo dei volatili non è dato dubitare, vista la frequenza con la quale ibridi uomini-uccello ricorrono nella sua pittura.
Se dobbiamo dar credito alle Note per una biografia, che l’artista redasse di proprio pugno, codesta fissazione, sebbene comune a molti altri surrealisti, ebbe un’origine fortuita e aneddotica, come molto nella sua opera: la morte dell’adorato pappagallo Hernebom. Il racconto, così come viene narrato dal protagonista, ha tutto il sapore di una pagina di Hoffmann: «un amico di Max, chiamato Hernebom, un pappagallo di tutti i colori, intelligente e fedele, muore durante la notte; un bambino, il sesto della famiglia, viene al mondo. Confusione mentale nel cervello dell’adolescente che, di solito, gode di buona salute; una sorta di delirio d’interpretazione come se Apollonia, la sorellina, nata in perfetta innocenza nello stesso momento, si fosse appropriata della voglia di vivere, della linfa vitale dell’uccello amato. La crisi è rapidamente superata. Ma nella fantasia del giovane sopravvive un’immagine irrazionale in cui si confondono uccelli e uomini».
Gli psicoanalisti potrebbero trovare in questo episodio materiale di studio non inferiore a quello che saprebbe ricavarvi uno storico dell’arte, al quale non sfuggirebbe come la confusione mentale della quale si parla sia dello stesso genere di quella posta da Breton a fondamento della pratica surrealista nel Manifesto del 1924. Agli specialisti del pittore, tuttavia, la pagina suggerirà una nota più particolare, giacché non soltanto Ernst mescolava i due regni animali, ma anche i suoi compagni – apprendiamo scorrendo l’antologia – facevano dell’amico un artista-uccello. E se possiamo diffidare della sdrucciolevolezza immaginifica di Eluard, che dovette trovare nel motivo della metamorfosi uno stimolo alla sua eloquenza metaforica, che dire di René Crevel per il quale «Ernst ci invita alla miracolosa ascensione, le nostre palpebre diventano ali, i nostri sguardi volano, più veloci del vento»? Ne L’Uccello Superiore, dedicato all’amico-amante da Leonora Carrington, l’artista stregone percuote col suo pennello le menti, come fosse una bacchetta, l’arida crosta che involve perpetuamente il nostro spirito si ricopre allora di minuscole, agilissime penne: «dalla carne spuntano piccoli brufoli bianchi; mentre mescola per sette volte ancora fissando, vedi i brufoli seccarsi e indurirsi in piccole piume luminose».
Werner Hofmann ha provato a svelare la simbologia celata dietro queste immagini: «gli uccelli di Ernst sono creature instabili, metamorfiche… i limiti sono vaghi, la decisione della forma è lasciata allo spettatore»; e a conclusioni non troppo diverse giunge Ludger Derenthal nell’affermare che «gli uccelli, le creature aeree, in Marx Ernst, si situano anche come punti di partenza dell’elaborazione di molte tecniche artistiche». Ansia indefessa di trasmutare, dunque, di ricreare, attraverso tecniche diverse, la realtà. In pittori come Dalì o come Delvaux capita spesso di trovare l’arte diluita nella maniera. Se si pensa agli esagitati melodrammi erotici del primo o agli incongrui nudi del secondo non si può fare a meno di pensare a una fondamentale quiete stilistica affinata con strumenti pittorici sempre più forbiti. Nulla di ciò accade in Ernst.
«È solo tardivamente – scrive Spies – che il secolo comincia a riconoscere l’apporto capitale di Ernst, che consiste nell’aprirsi un cammino visibile tra la fede nella personalità creatrice e l’atteggiamento di sarcasmo che segna tutto ciò che gli cade sotto mano». Queste parole possono spiegare almeno in parte i pregiudizi della critica che vide a lungo in Ernst un pittore dilettante e intellettuale. Anche nelle evaporate foreste, dipinte intorno agli anni venti, nelle città di pietra fossile, còlte in una sorta di rugginoso splendore, o in composizioni labirintine e barocche, quali La tentazione di Sant’Antonio, in cui la meticolosità di disegno non disdora i modelli cinquecenteschi che l’hanno ispirata, permane un che di affocato e di instabile, come di materia lontana dal suo punto di raffreddamento.
Nel 1923 Aragon, scrivendo a proposito delle ultime composizioni di Ernst (Max Ernst, pittore delle illusioni, anch’esso qui antologizzato), ripercorreva i vari momenti della sua pittura per evidenziarne l’inarrestabile ricerca: la prima maniera risentiva di De Chirico, seguì l’epoca dei collages, «poi progressivamente la pittura di Ernst si semplificò e, alla esposizione degli Indipéndants di Parigi nel 1923, si poté vedere accanto ai quadri di cui ho appena parlato i primi esempi della sua maniera nera», poi ancora gli acquarelli e «le grandi composizioni che dipinge ora Ernst (La bella giardiniera; Santa Cecilia)», non ancora esposte al pubblico. Alcuni anni dopo Ernst dichiarò: «Un pittore può sapere quello che non vuole. Ma infelice lui quando vuol sapere ciò che vuole! Un pittore è perduto quando si trova». Se avesse venduto la propria anima per la perfezione della sua arte, «il più versatile dei surrealisti dal punto di vista tecnico», come ebbe a definirlo Alfred Barr, avrebbe domandato al Demonio, a imitazione di Faust, «die Frucht, die fault, eh’ man sie bricht»: «il frutto che, prima di coglierlo, è marcio».