«Verso il 1919», scrive Paul Eluard, «nel momento in cui l’immaginazione si sforzava di dominare, di controllare i tristi mostri che la guerra aveva rinvigorito, Max Ernst decise di seppellire la vecchia Ragione, causa di tanti disordini, di tanti disastri, non sotto le sue macerie – con cui essa si fa dei monumenti – ma sotto la libera rappresentazione di un universo liberato». Due anni prima, a Zurigo, era nato Dada, e Max Ernst era lì, a nutrire il suo grande occhio, a sviluppare, sotto l’ala di De Chirico, all’ombra di Breton, le dottrine surrealiste, i principi della spontaneità. Che, certo, non corrispondevano alla disciplina del gruppo e all’autoritarismo del suo capo.
Ernst era fatto per i movimenti e i fenomeni naturali, senza obblighi, senza gerarchie, come i suoi collage che, proprio nel 1919, segnano la sua ribellione e il suo distacco da rapporti e funzioni convenzionali. Il mondo deve essere sollevato dagli ordini banali, magari rifugiandosi nel meraviglioso, sperimentando tecniche diverse, inventandone di nuove, recuperando giochi infantili, tutto quanto serve ad avvertire il mistero della nascita e della morte e l’inestinguibile presenza delle cose inafferrabili (cfr. Monumento agli uccelli). Solo così le avanguardie possono essere utili all’arte e alla società, rendendoci cittadini di questa città che è la nostra esistenza. Dove esseri, oggetti, avvenimenti hanno di continuo bisogno di una scossa per essere riportati in vita e compresi anche nelle loro parti nascoste.
Molto utile, in questa impresa, che si assume il compito di una autentica emancipazione, l’uso dell’ironia. Leggera, penetrante, arriva a identificarsi con la verità, a riscoprire nei fondali marini, negli erbari, nei cataloghi degli oggetti domestici, nel cammino delle correnti artiche, nella posizione delle stelle, le figure del mito, gli archetipi che sovrintendono alla nostra quotidianità, ai nostri sogni, e ci colmano di serenità e di angoscia, di intelligenza e di imbecillità.
La memoria, in Max Ernst, nutre l’immaginazione, ne tesse e indirizza tutte le trame in misteriosa simmetria, pronta a penetrare, a evocare e a trascendere ogni minima apparenza. È l’immaginazione che sviluppa le nostre facoltà percettive, che spezza le barriere dell’apparenza, che manipola le sensazioni agitando desideri e speranze, che sgretola le regole e i valori convenzionali stimolando antiche vitalità.L’Oedipus rex, l’Éléphant Célebès, I fanciulli minacciati da un usignolo, autentici capolavori, tutti degli anni ’20, sono alcuni degli esempi in cui l’opera, fantastica e emblematica, corrisponde alla vita, di continuo rinnovata, mai divorata da idoli e ideologie, attenta a non perdere lo splendore della giovinezza, le penne colorate della poesia che aiuta l’operato della fantasia a contaminare l’albero e il vento, la terra e il mare, i pesci e gli uccelli.

Autorevole esploratore di sensibilità sotterranee e di personaggi immaginari, Max Ernst sa, sulla scia del suo amico Eluard, cogliere in un angolo il carro d’erba dell’estate immobile glorioso ed eterno.Tutto, nel suo lavoro, è all’insegna del mistero; ogni trovata viene abilmente immessa nella dimensione di un mondo immaginario dove, in un primo tempo, gli elementi, anche quelli puramente plastici, suggeriscono paesaggi e animali, poi, in particolare dopo il soggiorno americano, all’insegna della suggestione poetica, indagano nel giorno e nella notte, nel paese degli uccelli e nei paesaggi dell’Arizona, nelle geometrie naturali e nel volo di una mosca, in duemila pelli rosse e lucide e nei costumi delle foglie, portando alla luce forme molteplici, sagome pietrificate, che riassumono un’eccitata evoluzione cosmica, pianeti smantellati da ordini e valori stabiliti dagli abituali regni differenziati che il sogno ricrea, la fantasia esplora, la folla degli impulsi scaturiti da ignote regioni dello spirito (follia, allucinazioni, delirio, humor) riorganizza, suggerendo all’immaginazione la «disambientazione sistematica degli oggetti» in seguito identificati e popolati di presenze.

Bisognerebbe, per l’antologica di Basilea curata da Raphaël Bouvier (Fondazione Beyeler, fino all’8 settembre), affidarsi all’autobiografia di Ernst e attraverso questa constatare come avviene la crescita del dipinto, la tensione interiore e la renitenza al prevedibile che la sostiene, gli scatti della mente, le invenzioni, l’insopportabile ossessione visuale, le discese negli abissi del subcosciente, sempre au delà de la peinture. Opere come La femme chancelante (1923), Loplop présente une jeunefille(1931), Fascinant cypres (1940), Vox Angelica (1943), La roche sous-marine (1966), Quelques animaux dont un illettré (1973), sono, in piena civiltà (o logorio) delle immagini, una delle proposte più alte del caso e dell’artigianale, una sconfessione della ragione e del gusto a danno della morale, dove «il ruolo dell’artista si riduce al potenziamento delle allucinazioni della mente ed egli diventa semplicemente uno spettatore, colui che contempla il farsi stesso della propria opera». Frottage, grattage, dripping, decalcomania sono le parole della libertà assoluta, adoperata in ogni minima sfumatura per tecniche-verità di un mondo ebbro-malinconico che non guarda all’arte ma cerca «son double» e crea e distrugge, Sisifo e Narciso, demiurgo.

L’osservazione di un dipinto che rappresenta Breton e Éluard, Aragon e Soupault, Desnos e Crevel accanto a Raffaello e Dostoevskij, la lettura della presentazione al catalogo della mostra Cos’è il surrealismo? (Kunsthaus, Zurigo 1934), l’invenzione o il rinnovamento di procedimenti e metodi creativi, spiegano perché l’artista tedesco sia il pittore che meglio esprime le preoccupazioni dei suoi compagni di strada, poeti compresi. Non a caso, a Max Ernst è stato affiancato Antonin Artaud e il suo teatro della crudeltà, dove crudeltà vorrebbe dire vita e realtà «dereglement de tout sens». Non spettacolo dell’inconscio, quindi, ma coscienza applicata, perché «non si ha crudeltà senza coscienza».
Ernst, nato a Brühl, presso Colonia, in Renania, nel 1891, rimanda la sua parentela con Hegel e Goethe, con Novalis, illuminista e romantico, naturalista e enigmatico, rivoluzionario e pronto a ogni sottile operazione critica. Non solo per aver studiato filosofia nella facoltà di lettere dell’Università di Bonn, essere stato iniziato giovanissimo alla psichiatria visitando istituti per alienati, restando affascinato dai dipinti e dalle sculture degli ammalati mentali, aver deciso di diventare pittore nel 1912 dopo essere entrato in una mostra che riuniva opere di Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Picasso, Munch e Matisse. È in questo senso che si spiega la lettura di De Chirico su un numero di Valori Plastici del 1919, la creazione dei primi collages partendo da immagini stampate, il viaggio in Estremo Oriente con Eluard (1922), la partecipazione con Buñuel e Dalì alla realizzazione di L’Âge d’or (1930), il matrimonio con Peggy Guggenheim (1941), le metamorfosi che affollano i suoi quadri nei diversi aspetti dell’ordine cosmico in ebollizione, anche quello che cinque secoli prima Bosch aveva tentato, popolando della presenza del maligno i sogni di uomini-mostri, in un universo inquinato.
Il più consueto dei mondi, sembra dirci Max Ernst, la più pacifica quotidianità, prolifera di una ricchezza di immagini, segni, parole, sigle, calligrafie, luci, colori e sentimenti del tempo sciolti dai cappi della ragione (cfr. la serie Histoire Naturelle, La dona dalle 100 teste, Una settimana di bontà). Ogni operazione di avvicinamento può apparirci azzardata perché la crepa di un muro è ermetica come la muffa di un bosco.

Eppure, i nostri strumenti espressivi possono essere liberati dalla circuizione del banale solo penetrando e sostituendosi a lei, capovolgendola, nella creatività della natura, unico punto di sutura tra noi e il senso della storia. Che assomma nuove forme, nuove tecniche, a nuove fantasie, e sonda i fermenti dell’anima umana, amalgama i patrimoni della tradizione con l’ardimento dell’ex-novo, sfugge alle contaminazioni delle sistemazioni pratiche, proietta l’esistenza degli individui verso importanti conquiste spirituali. Anche quando violenza espressiva e spaesamenti angosciosi si attenueranno, incanalandosi in una grazia maliziosa.
Fra paure e terrori, luce e tenebra, urla e silenzi, Max Ernst ci ha insegnato a ascoltare i messaggi che continuamente partono dagli angoli più nascosti della nostra vita, lì dove abbiamo seppellito la curiosità, la creatività e il dono della meraviglia.