Thomas Wolfe a Maxwell Perkins
Montague Terrace, Brooklyn, N.Y
15 dicembre 1933
Caro Max,
Ero molto stanco ieri notte quando ti ho spedito l’ultima parte del manoscritto, perciò non sono stato in grado di dirti granché, in proposito. E in effetti non c’è molto da dire, se non che oggi sono consapevole di diversi errori, di omissione come di composizione, e vorrei aver avuto più tempo per sistemare e scegliere il materiale, ma penso sia stato comunque un bene avertelo spedito, anche nella sua forma attuale.
Non invidio il lavoro che ti attende. So quanto sarà dura riuscire ad affrontarlo, ma credo che, anche nella forma in cui il materiale ti è stato consegnato, dovresti essere in grado di fare una prima stima del suo valore o della sua mancanza di valore, e riferirmi le tue impressioni. Se la tua impressione complessiva sarà che io posso andare avanti e completare l’opera, credo di poter procedere molto più in fretta di quanto immagini. Inoltre, quando tutte le scene saranno state completate e la narrazione sarà passata alla terza persona, credo che emergerà un senso di unità molto maggiore di quanto ora sembri possibile, nonostante la forma mutilata e tagliata con l’accetta nella quale hai ricevuto il manoscritto, e sono decisamente speranzoso, e spero che il tuo verdetto sarà che io prosegua e completi la prima stesura nel miglior modo possibile, e nonostante tutti i ritmi interni, i canti – quelli che tu chiami i miei ditirambi – che sono disseminati in tutto il manoscritto, credo che, una volta finito il mio lavoro, scoprirai che c’è una sovrabbondanza di spunti narrativi… o forse dovrei dire una volta finito il tuo lavoro, perché devo confessarti con molta vergogna che ho bisogno del tuo aiuto, adesso come non mai.
Hai detto spesso che se ti avessi dato qualcosa su cui mettere le mani e che tu potessi soppesare dall’inizio alla fine, saresti potuto entrare in gioco e aiutarmi a uscire dalla palude. Ebbene, questa è la tua chance. Credo che ci attenda un lavoro folle e disperato, ma se sei convinto che valga la pena di affrontarlo e mi dici di insistere, penso proprio che non ci sia nulla che io non possa realizzare. Però devi essere onesto e diretto nelle tue critiche, quando ne parli, anche se quello che dirai dovesse essere duro da accettare per me dopo tanto lavoro, perché questo è l’unico modo corretto di procedere, e l’unico che può portare a qualcosa, in fin dei conti.
Voglio rimettermi al lavoro sul manoscritto appena possibile, ed è probabile che scriverò in ogni caso le scene mancanti, per arrivare al più presto a una versione completa. Volevo scriverti soprattutto per dirti che sono in uno stato di grande trepidazione e insieme di grande speranza. Sepolte in quella pila enorme di fogli ci sono alcune delle cose migliori che io abbia mai scritto. Facciamo in modo che non vadano sprecate.
Sempre tuo
Tom Wolfe

Maxwell Perkins a Tom Wolfe
21 gennaio 1935
Caro Tom: sono in partenza per Key West proprio ora, per quanto mi sembri impossibile doverci andare, visto che, al mio ritorno, Il fiume e il tempo sarà un libro. Approfitto quindi di quest’ultimo momento per dirti quello che sono stato tante volte a un passo dal dire.
Niente potrebbe darmi un piacere più grande o un orgoglio più grande in qualità di editor dell’idea che il libro dello scrittore che ho ammirato più di qualunque altro sia dedicato a me, a condizione che il gesto sia sincero. Ma tu non puoi, e non dovresti neppure modificare la tua convinzione che io abbia deformato il tuo libro, o che gli abbia quanto meno impedito di raggiungere la perfezione. Pertanto è impossibile per te dedicarmelo con sincerità, e non dovresti farlo. So che siamo veri amici e che abbiamo affrontato molte cose assieme, e tutto ciò, per quanto mi riguarda, non può e non deve cambiare. Ma questa è un’altra faccenda. Te lo avrei detto anche prima, se non avessi temuto che potessi equivocare. Ma la semplice verità è che lavorare sui tuoi scritti, quale che ne sia stato l’esito, nel bene e nel male, è stato il più grande piacere, per quanto doloroso, e l’episodio più interessante di tutta la mia vita di editor. Il modo nel quale stiamo presentando questo libro dovrebbe dimostrare quanto tutti noi (io per primo) crediamo nel suo valore. Ma ciò che ho fatto ha distrutto la tua fede nel libro e non devi agire in modo incoerente rispetto a questo dato di fatto. Quanto alla tua prefazione, c’è un ostacolo di carattere preliminare: un lettore dovrebbe entrare dentro un romanzo come se fosse reale, e sentirlo come tale, e una prefazione tende a far cadere tale illusione, e a far guardare all’opera come oggetto letterario. Ma forse anche questa è un’obiezione di tipo letterario a una prefazione, e vista l’eleganza con la quale l’hai cominciata ho pensato che forse tu avessi ragione a volerla inserire. Oggi però, proseguendo con la lettura, mi è sembrato che tu abbia fatto le stesse cose che hai evitato di fare nel romanzo: ossia, far sembrare il libro qualcosa di personale e di autobiografico, e nel mostrare risentimento contro coloro che hanno obiettato sull’effettiva esistenza (come la prefazione implicava) dei personaggi dell’Angelo, ti sei esposto alla stessa accusa nei confronti di questo libro e hai informato tutto il tuo pubblico che avanzarla sarebbe ragionevole. Un pubblico all’interno del quale solo pochi sono in grado di comprendere il punto di vista dell’artista o la coscienza dello scrittore. In questi e in altri modi, ho pensato, ti sei esposto a tutti i nemici che hai, e ho dovuto dirtelo perché sono tuo amico….

Max
Traduzioni di Luca Briasco

di LUCA BRIASCO
Pubblicato l’8 marzo del 1935, Il fiume e il tempo è l’unico romanzo che, dalla concezione alla pubblicazione, può essere considerato interamente frutto della collaborazione tra Thomas Wolfe e Maxwell Perkins, probabilmente il più grande editor della sua generazione. Quando, nel 1929, sottopose il manoscritto di O Lost: Storia della vita perduta a Scribner’s, Wolfe era celebre più per le incursioni, non sempre felici, nella poesia e nel teatro, e per la vita errabonda trascorsa in giro per l’Europa, che per le sue doti narrative. Perkins invece, nel giro di pochi anni, aveva costruito per Scribner’s un catalogo che esibiva alcune delle voci più importanti del romanzo americano contemporaneo: da Francis Scott Fitzgerald, del quale aveva imposto quasi d’imperio il romanzo d’esordio, Di qua dal Paradiso, a Ernest Hemingway, sottratto al suo primo editore, Boni & Liveright, con una manovra a dir poco spregiudicata, e diventato simbolo della Lost Generation con Fiesta.
Preludio di un dissapore
Perkins ebbe il merito di intuire dietro la scrittura strabordante, rapsodica e intensamente autobiografica di Wolfe la presenza di un talento letterario senza pari. Il problema che gli si pose era governarlo e comprimerlo dentro strutture narrative meno esplose e più commercialmente digeribili. Così O Lost divenne Angelo, guarda al passato, e un paragone tra i due testi, entrambi disponibili a partire dal 2000 – quando la prima versione del romanzo è stata recuperata e data alle stampe – induce a diverse riflessioni sui limiti che il lavoro dell’editor dovrebbe imporsi: alcune parti tagliate rifulgono, a una lettura, di una luce potente, ma d’altro canto appare indubbia la qualità degli interventi di Perkins, che non si limitò a ridurre di un congruo numero di pagine il manoscritto, ma seppe incanalare il flusso verbale travolgente di Wolfe dentro una struttura e un disegno che lo rendeva più assimilabile anche a un pubblico ampio.
Per Wolfe, tuttavia, l’eccesso era una regola, quasi una condizione naturale. E che non avesse assimilato al meglio l’esercizio di editing di Perkins apparve fin troppo evidente dal progetto nel quale si lanciò, e che lo tenne impegnato per i quattro anni successivi.
Quando, nella lettera del dicembre 1933 (qui a fianco), annunciò a Perkins l’invio del manoscritto semi-definitivo del suo secondo romanzo, il libro si intitolava The October Fest, il suo modello più o meno dichiarato era il Proust della Recherche, e l’autore tornava, esasperandola, a quella miscela di autobiografia «esemplare» – memore del Whitman di Foglie d’erba –, impressionismo, invenzione poetica che il suo editor aveva già tentato di ingabbiare dentro una logica narrativa appena più rigorosa.

Sarebbe trascorso più di un anno prima che la seconda opera di Wolfe vedesse le stampe, dopo un editing ben più radicale di Perkins, che generò non pochi dissapori con l’autore. Se Wolfe, nella lettera del dicembre 1933, si era affidato al suo editor e amico dichiarando di aver bisogno come non mai del suo aiuto, gli interventi di Perkins, la riduzione brutale operata sul testo e la battaglia contro l’autobiografismo della quale si trovano tracce evidenti nella corrispondenza tra i due, avrebbero creato un dissapore profondo. Tanto che, scrivendo a Wolfe nel gennaio del 1935, quando mancava poco più di un mese dalla pubblicazione del libro, Perkins si sarebbe dichiarato sinceramente perplesso all’idea che Il fiume e il tempo fosse dedicato a lui, visto che il suo «pesante» editing aveva «distrutto» la fede dell’autore nel suo lavoro.

Il romanzo uscì ugualmente con una dedica a Perkins, che val la pena di citare per intero perché è raro trovarne di simili in opere di grandi autori: «A Maxwell Evarts Perkins, un grande editor e un uomo coraggioso e onesto, che è rimasto accanto all’autore di questo libro in periodi di amara disillusione e dubbio e non ha lasciato che cedesse alla disperazione, è dedicato un libro dal titolo Il fiume e il tempo, con la speranza che esso possa essere in qualche modo degno della devozione leale e della cura paziente che un amico impavido e imperturbato ha dedicato a ogni sua parte». Ma la delusione covava in Wolfe, e di lì a non molto sarebbe sfociata nella decisione di lasciare Scribner’s – e Perkins – trovando una nuova casa da Harper’s.

Il 12 novembre 1936, in una lettera dura e carica di risentimento, Wolfe chiese a Perkins un’attestazione formale che lo liberasse da qualunque obbligo nei confronti della casa editrice, aggiungendo: «Devo dirti con la massima chiarezza che, in considerazione di quanto accaduto nell’ultimo anno e mezzo, delle differenze di opinione e dei motivi di disaccordo dei quali abbiamo discusso in modo così aperto, franco e appassionato, e che hanno condotto a questa inequivocabile e dolorosa separazione, credo che questa attestazione avresti dovuto scriverla già da tempo, senza costringermi a chiedertela».
Dopo la separazione
Perkins rispose a distanza di soli sei giorni, producendo l’attestazione che Wolfe chiedeva, ma precisando: «Voglio solo dirti che da parte mia non c’è stata alcuna “separazione”. Sin da Angelo, guarda al passato, le tue opere hanno rappresentato l’interesse principale della mia vita, e non ho mai avuto alcun dubbio sul tuo futuro, fatta eccezione, a tratti, per il timore che tu non fossi in grado di controllare la vasta massa di materiale che hai accumulato».

Forse era proprio questo, il problema: se e come controllare la massa di materiale che Wolfe rapsodicamente metteva su carta. Perkins tentò di preservarne l’energia incanalandola, mentre è probabile che Wolfe volesse vederla esplodere e moltiplicarsi, senza limiti. Cosa ne sarebbe stato di Wolfe dopo la «separazione» rimane almeno in parte un mistero. Nei tre anni che lo separavano dalla morte prematura non avrebbe pubblicato più nulla, e il suo terzo e quarto romanzo, La ragnatela e la roccia e Non puoi tornare a casa, sarebbero usciti postumi, rivelando schegge di talento visionario impareggiabili dentro strutture irrisolte, spesso solo accennate.
Le parole finali sul talento di Wolfe e sull’amicizia tanto profonda quanto conflittuale con Perkins le avrebbe pronunciate William Faulkner, dichiarando che Wolfe era stato il più grande della sua generazione proprio per quel voler dire tutto, e tutto rivelare, che ha nel fallimento, ancorché sublime, la sua unica forma possibile.